sabato 17 dicembre 2011

La recessione

"Vedremo calzoni coi rattoppi; tramonti rossi su borghi vuoti di motori e pieni di giovani straccioni tornati da Torino o dalla Germania. I vecchi saranno padroni dei loro muretti come di poltrone di senatori; i bambini sapranno che la minestra è poca, e quanto vale un pezzo di pane.

La sera sarà nera come la fine del mondo, di notte si sentiranno solo i grilli o i tuoni; e forse, forse, qualche giovane (uno dei pochi giovani buoni tornati al nido) tirerà fuori un mandolino. L’aria saprà di stracci bagnati. Tutto sarà lontano. Treni e corriere passeranno di tanto in tanto come in un sonno.

(Fotografia Flickr/ http://www.flickr.com/photos/alinababafriend/)

Le città grandi come mondi saranno piene di gente che va a piedi, coi vestiti grigi e dentro gli occhi una domanda, una domanda che è,magari, di un po’ di soldi, di un piccolo aiuto, e invece è solo di amore. Gli antichi palazzi saranno come montagne di pietra, soli e chiusi, com’erano una volta.

Le piccole fabbriche sul più bello di un prato verde, nella curva di un fiume, nel cuore di un vecchio bosco di querce, crolleranno un poco per sera, muretto per muretto, lamiera per lamiera.

I banditi (i giovani tornati a casa dal mondo così diversi da come erano partiti) avranno i visi di una volta, coi capelli corti e gli occhi di loro madre, pieni del nero delle notti di luna - e saranno armati solo di un coltello.

Lo zoccolo del cavallo toccherà la terra, leggero come una farfalla, e ricorderà ciò che è stato, in silenzio, il mondo e ciò che sarà."

(Pier Paolo Pasolini )

venerdì 2 dicembre 2011

Porosità

Novembre 2010. Due passi vicino casa, una serata come tante. Luci giallastre e foschia sfumano i marciapiedi. Le macchine ti passano sfrecciando a fianco, stringi la sciarpa per ripararti dal freddo pungente. In testa scelte su cui meditare, nelle gambe voglia di camminare. Un’anziana sulla settantina si appoggia a un albero. Attorno buste della spesa, mucchi di cianfrusaglie che si spargono sul selciato. Poche persone in giro, ragazzi pronti per il venerdì sera, uomini che dai bar si dirigono verso casa. Il tempo di uno sguardo distratto e poi passano oltre. Faccio così anche io. Pochi passi e torno indietro. Ha gli occhi di un azzurro impenetrabile questa donna. Guarda dritto nei miei, ma è come se il suo sguardo mi scavalcasse. Le chiedo se si sente bene. Mi risponde che la devo aiutare. Non ha un posto dove andare. Chiedo se vuole che chiami qualcuno; elenco di tutto: polizia, ambulanza, centri caritas, 118. Prendo il telefono, lei mi afferra per il braccio e mi blocca. Mi indica i casermoni di cemento, che si alternano in successione sopra di noi, le antenne che si inarcano in quella chiazza di umidità luminosa, che concordiamo essere il cielo. “Non c’era nulla qui. Prati. C’erano prati. Poi hanno costruito tutto questo. Sai chi è stato? No, non è stata la mafia, sono stati i russi con il gas, non è stato nemmeno Berlusconi, è stato Putin”. Insisto per sapere se si sente bene, posso chiamare un’ambulanza se vuole. Ha una pessima cera, abiti sgualciti e occhi che sanno entrarti dentro come una miccia pronta a esplodere. “Se chiami mi troveranno. No, non devi chiamare nessuno. I soldi non li voglio, voglio solo che mi ascolti”. Fumiamo insieme qualche sigaretta. La gente che passa ci guarda sospettosa, ma tira via decisa. Mi racconta di una bambina che correva sulle strade sterrate di quel quartiere e che si feriva spesso, prima che gli impedissero di farlo. Di come suo marito fosse stato portato via dai russi e nascosto non si sa bene dove. Di quanto era buono il pane di Roma 40 anni fa, prima che lo inquinassero come hanno fatto con l’aria, con l’acqua, con le strade. Parliamo ancora un po’, poi cerco di divincolarmi. Non sono certo di sapere come aiutarla, né che lo voglia. La lascio qualche sigaretta e chiedo ai proprietari del bar di fronte se è il caso di chiamare il 118. “E’ sempre lì, non si può chiamare il 118 per la pazzia” è tutto quello che riescono a dirmi.



Novembre 2011. Non abiti più lì, ma ti ritrovi a passeggiare sulle stesse strade. Frammenti di verità che si spezzano, altri che si fanno largo. Pensi a questa enorme porosità. Ti chiedi se la sensibilità non sia in fondo nient’altro che fragilità. L’assenza di anticorpi fra se stessi e il mondo. Uno spazio in cui l’universale si arrende irrimediabilmente al particolare, all’irriducibile. Non sei sicuro che questo “irriducibile” possa essere rivestito di significati convenzionali. Ed è paradossale come hai saputo leggerlo in quella serena disperazione. In quegli occhi che non potevano più essere aiutati, perché erano troppi i significanti e i significati che li separavano dai tuoi. Paradossale come in questa ferita aperta tra te e il mondo risiedano le tue più profonde possibilità di creazione e di sgretolamento. Alzi gli occhi sui palazzi che sembrano rincorrersi fino alle colline in lontananza. Riesci malapena a scorgerle. “Putin. Gran figlio di puttana Putin”. Ed è tutto quello che riesci a dirti ancora una volta, tra i notturni in ritardo e i cinesi che chiudono il bar .

giovedì 27 ottobre 2011

Cronaca dell'alluvione #2

In principio fu la fine. Ne intuivamo distratti il senso nei pomeriggi d’inverno, quando il fumo delle nostre sigarette si spandeva ancora denso e noi rincorrevamo i giorni alla ricerca di qualcosa che ci somigliasse. Quando incominciammo a innamorarci delle vite degli altri era già tardi. I nostri eroi finivano. Finivano le storie, le idee, i baci, la rabbia, i lavori, i soldi, le camicie a quadri. Finiva sempre tutto in fretta. Finiva tutto, sempre. C’era del fascino in questa lunga caduta. Come se il mondo sgretolandosi liberasse le sue fragranze più oscure e soavi. Come se non ci fosse luce più abbagliante dell’ultimo lampione acceso nel mattino, né pace più dolce e dolorosa di quella che precede il temporale. Qualcuno si innamorò di questa lunga caduta, altri ne vennero inghiottiti. Alla maggior parte di noi toccò continuare a camminare. Con le stesse scarpe di sempre, tra le strade affollate di sempre. Passi esigui che non lasciavano alcuna traccia; i piedi, le mani, condannati alla sabbia.



La fascinazione della fine, era questo il secondo segno tangibile dell’alluvione. L’inganno che rimbalzava di schermo in schermo, di link in link, di sguardo in sguardo, fino a tradursi in bellezza, catarsi, verità. Fiorirono apocalissi, proliferarono palingenesi che scordavamo il giorno dopo. Ricordavamo invece di una porta socchiusa. Un piccolo spiraglio da dove filtrava quel mattino perfetto che ci chiamava a sé. Il sole che sbiadiva la fine della via, la canzone dell’estate che ci raccontava di domani : il mattino che non avremmo mai afferrato.

La chiamavamo “fine” è forse era solo un regno infranto. L’accecante abbaglio di sentirsi dispersi. Di camminare su specchi in frantumi sui quali indovinare i nostri lineamenti. La necessità di mostrarsi ad un miliardo di occhi e sentirsi soli. La possibilità di smarrirsi in miliardi di voci fino a dimenticare la nostra. Protendersi verso uno spiraglio e trovare solo buio. Avere tutto così chiaro da pregare e credere solo ad immagini. La chiamavamo “Fine”, ma forse era solo l’allergia sottile che ci esiliava dall’ombra delle cose. Da quell’ombra, qualcuno, da qualche parte, si sforzava di tracciare un nuovo inizio.

domenica 25 settembre 2011

Riportando tutto a casa

Quasi quindici giorni da Trieste a Belgrado, un viaggio che volevo fare da tempo. Poco per comprendere i Balcani, abbastanza per avere qualche intuizione. Giusto il tempo di ricordarmi quanto e perchè mi piaccia l'est di questo continente. Il tempo di vedere il mio mare bagnarsi con altro nome e con diversi colori su altre sponde. Il tempo di leggere qualche pagina di Ivo Andric: "E infine, tutto ciò che questa nosta vita esprime- pensieri, sforzi, sguardi, sorrisi, parole, sospiri - tutto tende verso l'altra sponda, come verso una meta, e solo con questa acquista il suo vero senso. Tutto ci porta a superare qualcosa, a oltrepassare: il disordine, la morte o l'assurdo. Poichè tutto è passaggio, è un ponte le cui estremità si perdono nell'infinito e al cui confronto tutti i ponti di questa terra sono solo giocattoli da bambini, pallidi simboli. Mentre la nostra speranza è sull'altra sponda".

Il tempo di capire che la complessità è sia difficoltà che ricchezza, che ogni tentativo di generalizzazione o semplificazione può comportare implicitamente violenza. Il tempo di fare indigestione di burek, cevapčići, birre e treni scalcinati e meravigliosi. Il tempo di un incontro che non scorderò. Il tempo di apprendere bugie e mistificazioni raccontate su una guerra tanto vicina, quanto dimenticata. Il tempo di capire che ironia e umorismo possono essere doni preziosi che gli dei concedono di tanto in tanto all'agonia degli uomini. Il tempo di innamorarsi di una mattina di Sarajevo. Il tempo di fotografare un libro dimenticato in fondo alla Miljacka. Il tempo di seguirne il corso al termine della notte e capire che la comprensione è un presentimento e un piccolo miracolo. Un ponte raro, fragile, steso tra solitudini. L'unico spazio, dove parole, sguardi, gesti e silenzi hanno realmente un senso. Poi eccoti ancora. Poi sei di nuovo qui.

lunedì 5 settembre 2011

Alla velocità del buio

C'è un libro che da troppo tempo sostava sul mio comodino. Si chiama "La velocità del buio", titolo appropriato per raccontare la deriva di questi ultimi venti anni. Un altro saggio su Berlusconi, mi dicevo, no, io di Berlusconi francamente ho la nausea. Una premessa, ho conosciuto Giorgio (l'autore) a Dublino qualche anno fa. Di quei mesi ricordo sopratutto lo scarso sonno, le grandi bevute e la perenne ricerca di un lavoro (io ne avrò cambiati almeno sei). Ci si ritrovava a parlare dell'Italia di tanto in tanto nelle feste dopo una dose massiccia di birre. Non so quante volte mi è capitato di sentire (e ripetere a mia volta) il mantra: "Non serve a nulla", "Se siamo qui ci sarà un motivo", o "E' l'Italia" e via dicendo. No, forse quando ero a Dublino, cos'era veramente questo Paese non lo sapevo, o almeno, non quanto adesso. "Cos'è l'Italia" ho imparato a sperimentarlo sulla mia pelle negli anni successivi.

Anche Giorgio credo di averlo conosciuto meglio poi, tramite il suo blog, che seguo e che vi invito a leggere. Mi sono deciso a prendere il libro in mano solo dopo un pò. Mano e mano che scorrevo le pagine mi sono accorto che la lettura non mi pesava, anzi. Il saggio non mi parlava solo di Berlusconi, ma anche del mio vissuto. Un tentativo di risposta ai numerosi interrogativi e ai tanti alibi che sottostannno all'anomalia di questi anni. Ai tanti "E' l'Italia", ai troppi "Fa tutto schifo" che mi è capitato di pronunciare. Ma non solo. Il libro tendeva a riportare il berlusconismo nel solco della mia quotidianità. Una quotidianità troppo spesso permeata da egoismo, superficialità e irresponsabilità diffusa. Inquadrava il berlusconismo non tanto (o meglio non solo) come un'assurdità politica e legale, ma come una sorta di pozzo avvelenato capace di inquinare i miei rapporti sociali e affettivi, la mia realtà, le mie prospettive, e ne combatteva nello stesso tempo la dimensione di tragedia e ineluttabilità. La recensione che trovate sotto doveva essere pubblicata su un magazine on-line. Per varie ragioni, che sottostanno alle (spesso) impercrustabili logiche editoriali , non è andata su. La ripropongo qui sotto (anche se un pò lunga per un blog).


Sono passati quasi venti anni dalla trasformazione de ”L’Italia è il paese che amo” (1994) a “L’Italia paese di merda” (2011). A pronunciare la frase, nel corso di una conversazione telefonica (intercettata), il premier Silvio Berlusconi. Di non abitare nel migliore dei mondi possibili credo ce ne fossimo accorti in molti. Ma sono convinto che in Francia, Germania o negli Stati Uniti lo stesso sarebbe probabilmente bastato a scatenare una crisi di governo. Non credo sia l’apice raggiunto dal nostro primo ministro. Ha detto cose ben peggiori nei confronti dei magistrati, delle donne, degli omosessuali, del popolo di sinistra, degli immigrati e via dicendo. Ancora una volta invece si è assistito a poche reazioni indignate, come se si trattasse di una freddura pronunciata dall’ultimo avventore del bar sport sotto casa o da un vecchio zio ormai in là con gli anni afflitto da arteriosclerosi. Ingenuamente, per un istante, mi è venuto da chiedermi “come si arrivati a questa situazione?”.

Una premessa. Di Berlusconi ho la nausea. Su di lui conosco sicuramente non tutto, ma molte cose. Ho assistito ad anni di saggi, inchieste, libri e invettive. Berlusconi è ancora lì, malgrado i segni di cedimento di questi ultimi mesi. E’ davvero necessario scrivere qualcos’altro sul personaggio? Credo di sì. A patto che si tratti di una storia diversa.

La lettura de “La velocità del buio” (Zona Editore) rappresenta per molti aspetti "una storia diversa". Scritto dal trentenne Giorgio Fontana il saggio si propone di tracciare una rotta nei binari disegnati dal berlusconismo in questi ultimi venti anni.

Cosa rappresenta l’anomalia berlusconiana per chi ha trent’anni e non può permettersi “il lusso della nostalgia”? Innanzitutto il simbolo di un edonismo irresponsabile diventato l’unico modello sociale plausibile, un paradigma che eleva l’egoismo personale a unico metro di giudizio, suggerisce l’autore. Una forma di pensiero, prima che di governo, che esclude ogni forma di progettualità e slancio capace di travalicare la mia individualità e il mio presente; la tirannia del “Qui e Ora” che non contempla il rispetto di norme condivise, né l’esistenza di pulsioni sganciate dal profitto immediato. Un regno dove nulla rappresenta un fine in sé stesso (e nulla ha quindi un valore insostituibile), ma tutto si trasforma un mezzo per accrescere il mio personale godimento.

L’obiettivo del saggio è considerare Berlusconi non solo (o non tanto) un enorme cortocircuito politico e legale, ma un problema cognitivo. Tre i capisaldi che reggono l’anomalia: crisi di una dimensione etica condivisa, crisi dell’argomentazione razionale, crisi della verità. Sono queste tre realtà che caratterizzano il ventennio berlusconiano più forse di ogni altro aspetto. La verità in questo universo non conta più nulla, suggerisce Fontana. L’argomentazione razionale è “pericolosa” perché mi obbliga a offrire giustificazioni possibilmente condivise per le mie azioni o le mie parole e come tale va abbattuta. Chi argomenta, chi si limita a verificare i fatti e fornire delle spiegazioni, viene visto come “un fesso” nella maggior parte dei casi. Al dialogo si è sostituito progressivamente il litigio e la delegittimazione del referente. Eccoci allora arrivati al cuore del problema. Ben al di là di essere unicamente un disegno politico quantomeno discutibile, che si alimenta di illegalità diffusa, il berlusconismo si pone come “Un attacco costante a verità, razionalità, etica o, più precisamente come il tentativo di legittimare che verità, razionalità ed etica siano cose insignificanti di fronte al proprio tornaconto”. Un progetto che si è staccato presto dal proprio creatore per diffondersi trasversalmente nella nostra quotidianità e persino in noi stessi. Cos’è allora Berlusconi, l’ennesima autobiografia della nazione o l’artefice dello “stato delle cose” in cui siamo immersi? Forse né l’uno, né l’altro, suggerisce il saggio. In quanto Berlusconi è sia l’incarnazione di mali e vizi di lunga data, sia la decisa accelerazione di una deriva .

“La velocità del buio” si apre con una domanda, che nasconde una premessa: “Come siamo arrivati a questo punto?”. Esiste un DNA immutabile rilevabile nella popolazione italiana, che possa giustificare questo stato di cose?. La risposta di Fontana è no. Esistono problemi atavici e ricorrenti nella storia del Paese. Un’unità debole ed etero- diretta, l’incapacità di riconoscersi nelle norme e nella collettività, un enorme differenza economica tra Nord e Sud, il culto diffuso del “particolare”, un “familismo amorale” trasformatosi da espediente di necessità a mezzo per giustificare cinismo ed egoismo, una serie di occasioni mancate specialmente negli anni del boom economico e quelli successivi della contestazione delineati da Guido Crainz nel saggio “Il Paese mancato”, ad esempio. In sintesi, quello che è forse sempre mancato al paese è stata una mancata educazione alla modernità, intesa come estensione dei diritti e dei doveri pubblici, senso civico concreto, fiducia anche minima nelle istituzioni. Ma non esistono “età dell’oro” e neppure affascinanti “mutazioni antropologiche” di pasoliniana memoria, per il semplice fatto che non esistono codici genetici dell’italianità. Esistono fenomeni storici e sociali determinati, sui quali si può e si deve influire.

Per capire l’Italia attuale, è allora meglio perdere di vista ogni nostalgia, perché l’Italia di un secolo, ma anche di trenta o quarant’anni fa, non è lontanamente paragonabile a quella che stiamo vivendo. La realtà odierna è quella di un paese dove appena il 20,2 % dei cittadini ha le competenze minime di lettura, scrittura e calcolo indispensabili per muoversi in una società complessa (I dati sono tratti da “La cultura degli Italiani” di Tullio De Mauro), problema rispetto al quale anche quello del “digital divide” perde spessore, perché la ricchezza delle rete e dei new media è basata su una complessità che va gestita con adeguati strumenti cognitivi e culturali. L’Italia contemporanea è il paese abitato da un ceto medio accomunato “da uno stile esistenziale volgare, rancoroso, consumistico – dove tutto può e deve essere consumato, tutto si riduce alla fruizione violenta e immediata”, una paese fondato su una videocrazia in cui le immagini hanno perso spesso ogni significazione, dove la lingua viene svuotata semanticamente ogni giorno (si pensi alle mille declinazioni del termine “comunisti” o alla magistratura definita “metastasi della democrazia”). Il tutto con un aggiunta importante: l’incapacità della sinistra di essere realmente “pop”, di creare una cultura non èlitaria non necessariamente speculare a quella berlusconiana, una tendenza già intuita in tempi non sospetti da Edmondo Berselli.

Date le premesse, sarebbe semplice arrendersi al “Non serve a niente”, titolo di un piccolo capitolo del saggio e mantra ascoltato e ripetuto infinite volte in questi ultimi anni. La via di uscita dalla “sensazione destinale” del berlusconismo, si chiama invece per Fontana recupero dell’“Illuminismo”, inteso come ideale senza tempo e ancora in itinere, basato su un corretto esercizio della ragione. Citando Kant l’autore invita a “Offrire dei buoni motivi per le nostre azioni. Motivi più o meno validi, ma comunque fedeli a una prassi di argomentazione: e cioè valutabili tendenzialmente da chiunque” . Ciò coincide con la ripresa di una dimensione in cui diritti e doveri sono le due facce di una stessa medaglia: quella della cittadinanza attiva. Una dimensione che si basa sul recupero dell’indignazione e della vergogna, sull’eliminazione diretta del “Tiranno che è in noi”. Sulla costruzione di un’identità nuova, in cui possa riconoscersi sia il figlio di un immigrato di Messina, che la casalinga di Trieste. Un appello esteso anche agli intellettuali e agli operatori culturali: quello di allontanarsi dal chiacchiericcio e dall’autoreferenzialità e dedicarsi alla creazione di buoni contenuti. Tornare al lavoro di argomentazione, di verifica e di diffusione orizzontale della conoscenza.

In sintesi, la “storia diversa” capace di combattere il belusconismo, passa nell’allargamento della dimensione del presente, nella capacità di proiettarsi e di progettare, nel recupero di un “Noi” a vantaggio di un “Io” ipertrofico e insolvente che ci hanno cucito addosso. E’ una strada percorribile? Sinceramente non lo so. So che il libro su di me ha avuto essenzialmente un effetto: quello di riscattarmi dal torpore in cui mi sento periodicamente immerso. Il pregio del saggio a mio avviso non è tanto quello di offrire soluzioni, ma strumenti per orientarsi nel disordine e nell’impotenza di questi tempi. Il riportare il berlusconismo nel solco di una quotidianità spesso composta da superficialità e irresponsabilità, veri e propri frutti avvelenati di una stagione lunga più di venti anni.

sabato 20 agosto 2011

Pavlov e la notte

Tutto parte da un campanello. A ogni trillo un cane (io immagino un bastardino) riceve un po’ di carne. Due, tre, quattro, forse anche cento volte. Poi il campanello suona di nuovo; niente carne questa volta, ma il cane abituato ad associare lo stimolo acustico al cibo, saliva pregustando il boccone. Sembra banale, è uno degli esperimenti chiave per la storia delle scienze sociali del ‘900. La scoperta di quello che passerà alla storia come “condizionamento operante” grazie al lavoro del fisiologo russo Ivan Pavlov. Quel campanello segna l’inizio di uno dei tanti “miti” del Secolo Breve: quello di poter influire anche sugli atteggiamenti e sui comportamenti umani attraverso l’accurata ripetizioni di stimoli ai quali dovrebbe far seguito una risposta condizionata. Per il filone di studio che si farà carico di questo paradigma, il comportamentismo, la mente umana non è nient’altro che una scatola nera inconoscibile (e il suo funzionamento viene considerato per molti versi irrilevante). Il Novecento, si sa, è stato il secolo delle masse; da un singolo individuo a una massa (a volte) il passo è breve. Sono queste teorie che influenzeranno altri modelli, come quello dell’”ago ipodermico”. In questo paradigma i messaggi comunicativi sarebbero in grado di colpire direttamente gli individui in modo diretto e immediato, modificandone opinioni e comportamenti, proprio come un proiettile. Non a caso la teoria è chiamata in inglese “Bullet Theory”. Pensateci, una larga massa di zombie controllati da pochi “architetti della volontà”, pochi Dottor Caligari da una parte e una coltre di individui ipnotizzati dall’altra. Come sono andate le cose? Sono andate che tra un uomo e un cane c’è (alle volte) differenza. Che tra la ricezione di un messaggio o l’esposizione a uno stimolo e la sua risposta ci sono molte variabili di tipo cognitivo, che rendono questa risposta per molti versi per imprevedibile. Ci sono la cultura, gli affetti, i valori condivisi, le relazioni sociali, il mio universo affettivo, la mia pancia piena o vuota, la mia discussione con mia madre e via dicendo. Nessuna bacchetta magica insomma.




Ho ripensato in questi giorni al cane di Pavlov, leggendo “La notte” di Elie Weisel. Il romanzo, la storia della deportazione del giovane protagonista che coincide con l’olocausto di un popolo (il popolo ebraico), è soprattutto il racconto di una perdita. La perdita di tutti i filtri cognitivi posti tra il processo di stimolo e quello di reazione. “La notte era completamente passata. La stella del mattino brillava in cielo. Anche io ero divenuto del tutto un altro uomo. Lo studente del Talmùd, il ragazzo che ero si erano consumati nelle fiamme. Restava solo una sembianza. Una fiamma nera si era introdotta nella mia anima e l’aveva divorata”. In un crescendo di orrori costanti, il protagonista scopre di essere nient’altro che un corpo freddoloso e sanguinante, una pancia vuota. Dopo ogni esecuzione descrive meccanicamente il pasto consumato, come se nulla significasse più qualcosa. Lo scenario è quello di figli contro padri, Kapò (ebrei) contro ebrei, forti contro deboli. L’unico motore dell’azione umana e la necessità, la risposta (sempre) condizionata a stimoli esterni ed interni”. “I lager sono i laboratori dove si sperimenta la trasformazione della natura umana” affermava Annah Arendt. Un esperimento destinato a espandersi su scala globale. Gli uomini dei campi di concentramento nazisti sono i sudditi ideali dei regimi totalitari perché del tutto isolati e privi di volontà. Come il cane di Pavlov al campanello segue la salivazione, così come a una serie di calci seguirebbe un’altra reazione condizionata, nessuno spazio per agire diversamente. Eppure. Eppure, anche nel romanzo avvengono piccoli miracoli. Come quando un’operaia francese rischia la sua incolumità per aiutare il piccolo protagonista. O come quando il violinista polacco, schiacciato dalla calca, non rinuncia a suonare e muore a fianco al suo violino: “Suonava un frammento di un concerto di Beethoven. Non avevo mai ascoltato suoni così puri. In un tale silenzio. […] Suonava la sua vita. Tutta la sua vita scivolava sulle corde. Le sue speranze perdute, il suo passato bruciato, il suo avvenire spento. Suonava quello che non avrebbe mai più suonato”. Sono piccoli lampi, preceduti da oscurità assoluta. Proprio per questo hanno la capacità di abbagliarti. I pezzi mancanti di un’equazione, la promessa di una strada diversa.



Quant’è difficile mantenere vivi i pezzi mancanti di questa equazione? Me lo chiedevo nei giorni scorsi osservando le notizie che provenivano riots inglesi. Viviamo tempi difficili, fatti di rabbia e frustrazioni. Tempi in cui i meccanismi della rappresentatività democratica sono quantomeno offuscati su scala globale. Eppure quello a cui si è assistito, è un sintomo di qualcosa che può largamente diffondersi, che non riesco a giustificare. Mi hanno in particolare colpito i negozi assaltati con il semplice scopo di rubare laptop, I phone, magliette di squadre di calcio e via dicendo. Amici residenti a Londra, mi raccontavano di intere aree in mano ad adolescenti e ventenni ubriachi, che si aggiravano con l'unico scopo di razziare e predare il più possibile. Tra le tante analisi, ho condiviso in particolare questa di Bauman che definisce i riots come rivolte di consumatori deprivati ed esclusi dal mercato, o questa di Adriano Sofri, che accosta il Lumpenproletariat di marxiana memoria agli insorti.

Non sono buonista, credo che ci siano circostanze in cui porgere l’altra guancia è semplicemente idiota. Ma il punto è che ho letto questi avvenimenti come il proseguimento di un modello di pensiero diffuso e dominante: il consumo come liturgia identitaria, l’irresponsabilità diffusa, l’ideologia “dell’arraffa quanto più puoi, prima che non sia più possibile”. In linea di principio, sono gli stessi meccanismi che possono spingere a girare con un SUV sfrecciando in pieno centro storico o a sfruttare lavoratori nelle aree del terzo mondo. Nessun equazione da smentire, solo l’ennesimo tornaconto del meccanismo stimolo – reazione (consumo). La salivazione come unico modello di pensiero ed azione. L’erosione di certezze, ricchezza e benessere diffuso, può sviluppare diffusamente risposte di questo tipo. Quante persone sono prigioniere di questa equazione? Quante confondono il trillo di Pavlov con il canto delle sirene? In quanti hanno sviluppato in questi anni modelli cognitivi per opporsi ai condizionamenti dell'industria culturale?

Ho l’immagine del piccolo violinista di Varsavia che suona Beethoven, pur nella calca che lo uccide. E’ il suo modo di sfuggire alla tirannia di un meccanismo condizionato. E oggi?. Oggi la fiaba che ci hanno cucito addosso, tarda giungere al lieto fine. Le molliche di pane sono terminate, Pollicino non torna più a casa. E’ fin troppo facile smarrirsi nella notte. A noi, solamente a noi, il compito (e la difficoltà) di cercare un altro sentiero. Uscire dall’indifferenziato e riattribuire cause, effetti e responsabilità. Ricreare gerarchie di priorità. Tornare a "suonare il nostro violino". Non è facile, soprattutto quando si prova rabbia. Ma è forse l’unico modo per opporsi al trillo di un campanello, all’ostinata tirannia delle nostre ghiandole salivari

lunedì 1 agosto 2011

A largo

La luce delle scale dell'albergo di fronte, il mare invisibile come un sintomo, lo sai, è da lì che filtra la tua estate. Anche adesso che l'estate non la senti, anche se sei lontano. Se stringi le dita ti chiedi perchè ti sia sempre piaciuto l'odore che c'è dopo un acquazzone o il nuotare a sera nel tuo mare fino a largo e startene lì a guardare il mondo svanire. C'è un tempo in cui ogni sera d'estate è una promessa. A te piaceva osservarla da lontano accendersi piano la sera. L'utopia inquieta di tracciare un solco, ritrovarti in altri sguardi, altre bocche, altre parole. La stupida convinzione che non sia tutto destinato a svanire intorno. La sensazione che ci sia qualcosa intrappolato lì fuori, qualcosa che può parlare solo a te.



Non sei più lì, ma in un quartiere romano deserto. Anche se lo fossi non proveresti le stesse cose. Ti affacci e c'è solo una radio che va. I quattro accordi di Karma Police. Le macchine che sfumano via lontano. Quando cessano, ti accorgi di aver perso parecchie cose per vedere ancora quelle sere d'estate con gli stessi occhi. Ti racconti che è un processo di sottrazione necessario per arrivare a te. O forse anche questa è l'ennesima giustificazione per dormire meglio. Allora pensi che se fossi lì a largo percepiresti che lo starsene lì a galla probabilmente non ha senso. Ma che forse il tuo essere uomo consiste solo in questo: non arrenderti all'ineluttabile. Altre mani, altre braccia hanno fatto sì che stessi lì ad aspettare quella sera. Conta questo, qualsiasi sia la fatica, qualsiasi sia il prezzo. Semplicemente perchè "Così vanno le cose, così devono andare" come diceva una vecchia canzone. Esci fuori e la notte d'estate è quella che è sempre stata, un tappeto sporco su cui camminare a piedi scalzi, un mare calmo infestato di sirene. Alzi gli occhi in alto, poi si spegne anche la radio e ti accorgi di essere solo. Non ti dispiace esserlo. Come se la riva fosse lì in fondo, ma non ci fosse nessuna fretta. Ogni bracciata nella sera una ferita che il mare ricuce istantaneamente. Non hai tempo di voltarti a osservarne la scia. Si vive sempre in una terra che non ci appartiene. Si vive "estirpando la gioia ai giorni futuri". Ma c'è qualcosa di vivo anche nel tuo respiro. Qualcosa che vuoi afferrare. Qualcosa che forse afferrerai, un giorno.

lunedì 25 luglio 2011

Le vesti di Orfeo

[...] BACCA: Eppure hai pianto per monti e colline - l'hai cercata e chiamata - sei disceso nell'Ade- Questo cos'era?
ORFEO: Tu dici che sei come un uomo. Sappi dunque che un uomo non sa che farsi della morte. L'Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L'ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrgidirisi e guardar vuoto, i lamenti cessare. Persèfone nascondersi il volto, lo stesso tenebroso impassibile, Ade, protendersi come un mortale ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla.
BACCA: Il dolore ti ha stravolto Orfeo. Chi non rivorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata.
ORFEO: Per poi morire un'altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l'orrore dell'Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos'è il nulla. [...]



BACCA: Non sai che farti della morte, Orfeo, e il tuo pensiero è solo la morte. Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.
ORFEO: E voi godetevela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. E' necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L'orgia del mio destino è finita nell'Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte.
BACCA: E che vuol dire che un destino non tradisce?
ORFEO : Vuol dire che è dentro di te, cosa tua: più profondo del sangue, di là di ogni ebbrezza. Nessun dio può toccarlo.
BACCA: Può darsi Orfeo. Ma noi non cerchiamo nessuna Euridice. Com'è dunque che scendiamo all'Inferno anche noi?
ORFEO: Tutte le volte che si invoca un dio si conosce la morte. E si scende nell'Ade a strappare qualcosa, a violare un destino. Non si vince la notte, e si perde la luce. Ci si dibatte come ossessi.
BACCA: Dici cose cattive...Dunque hai perso la luce anche tu?
ORFEO: Ero quasi perduto e cantavo. Comprendendo ho trovato me stesso. [...]

(Cesare Pavese "Dialoghi con Leucò")

giovedì 21 luglio 2011

Il web ricorda Genova 2001

Parlavo qualche giorno fa, di come il web abbia talvolta la capacità di rinnescare processi di memoria collettiva. Navigando in rete mi è capitato di vedere qualcosa del genere riguardo al G8 di Genova del 2001. Io ricordo Genova è un blog collettivo ideato da due ragazzi e aperto a tutti. Collegandosi è possibile consultare e inserire testi e immagini per raccontare quelle giornate di luglio di 10 anni fa.

Io nel Luglio del 2001 avevo 21 anni. Non ero lì, bensì a studiare per gli ultimi esami universitari. Ricordo la mia incredulità alle prime immagini diffuse e alle prime frammentate notizie che pervenivano: mi sembrava semplicemente un brutto sogno. Avevo sempre considerato l’Italia come un paese più incline al grottesco che alla tragedia. O forse venivo semplicemente da una generazione (per fortuna) non avvezza agli scontri di piazza, alle stragi di stato o alla repressione del dissenso. Quei giorni credo che abbiano segnato un confine per molti di noi. Per la prima si sperimentava, dopo tanto, quanto potesse essere brutale il potere con la P maiuscola, per la prima volta ci si è rendeva conto che la parola “responsabilità” non era uno scherzo, da entrambe le parti.

“Ho visto la polizia ferma come un blocco di pietra aspettare che si scaricasse l’onda aggressiva per poi sfogare le proprie frustrazioni sugli inermi. Ho visto Vittorio Agnoletto nascondersi dietro ad una foglia di fico, mentre il sangue che scorreva per le strade era anche responsabilità sua. Non organizzi una manifestazione così senza servizio d’ordine. E men che meno dopo il venerdì di morte. Se lo fai sei connivente. Se lo fai sei il novello Pietro l’eremita, pronto a portare al massacro le sue schiere. Ho sentito gridare slogan che tutto erano fuorché slogan. Erano invece parole di ragione e di saggezza, che il tempo ha dimostrato vere. Si gridava contro una globalizzazione che affama le moltitudini e arricchisce le caste. E si sentivano in risposta echi di voci, anche vicine, che ti trattavano come fossi un idealista superficiale. Eri invece l’esatto contrario. Un disilluso che riusciva a vedere questa globalizzazione per quella che è. Un mostro che divora la terra su cui poggia. Genova è una frattura insanabile. Una frattura tra chi crede che un diverso modello di sviluppo sia possibile, e chi crede che questo modello sia l’unico e l’eterno. Ora come allora.” Ricorda un utente del sito.



Genova 2001 è forse la prima volta in cui si è capito che anche se non è detto “che un altro mondo è possibile” lo è un altro modello di fare informazione. Uno dei primi episodi in cui la cronaca degli eventi è stata fatta anche dalla gente nelle strade con l’uso di fotocamere, telecamere e connessioni internet, e l’utilizzo di portali transnazionali di controinformazione (ormai quasi dimenticati) come indymedia. Uno dei primi episodi in cui l'informazione “ufficiale” si è dovuta confrontare con quella dal basso generata dagli utenti. Molte bugie sono entrate nel mainstream informativo nazionale comunque e molte permangono ancora, ma da queste esperienza nasce una nuova concezione e un’utopia di trasparenza che condurrà, quasi 10 anni dopo, nel tempo dei social network, alla realizzazione di sistemi come Wikileaks.

Genova 2001 è l’ultima volta in cui l’opinione pubblica mondiale si è dovuta confrontare con istanze come: iniqua distribuzione del reddito mondiale, economia non sostenibile, decrescita, istituzioni sovranazionali e legittimazione democratica, multinazionali e diritti globali dei lavoratori e così via. Una lezione forse ancor valida ancor oggi come ricorda qualcuno in questi giorni. Due mesi dopo, con il crollo delle Twin Towers e "il serrate le fila" nella lotta al terrorismo, queste istanze sarebbero uscite pian piano dall’agenda del dibattito globale.



Genova 2001 è infine, forse la pagina più nera per la vita democratica di questo paese da 10 anni a questa parte. Perché sprovvedutezze a parte, in nessuno stato che si definisce “di diritto” possono essere tollerati episodi come quello dell’assalto alla scuola Diaz e le sevizie nella caserma di Bolzaneto, così come gli assalti indifferenziati sui cortei e una gestione a dir poco pessima dell’ordine pubblico.

“Dieci da quando scappi e per la prima volta nella tua vita hai paura di morire. Dieci anni da quando torni a casa e scopri che il resto del mondo non sa la verità, da quando vedi una ragazza che hai conosciuto il giorno prima portato via in barella con la testa insanguinata, da quando non parli più per due giorni e scopri che non sarai più lo stesso. Poi passano dieci anni e tutto torna e non cambia niente e ti viene solo da vomitare.”

Possiamo parlare di incompetenza. O essere più maliziosi (o semplicemente più realisti) e pensare a dei mandanti politici e a una “lezione esemplare”. In entrambi i casi, come potete leggere qui , a pagare sono stati in pochi. Abbiamo avuto dieci anni per scordare i nomi dei protagonisti. Cerchiamo di non scordare cosa hanno significato.

giovedì 14 luglio 2011

L'aquila: anno 2.0 o 0.2 ?

C’è uno spazio che ho perso circa due anni fa. Uno spazio meta di tante serate, dove studiavano amici e da dove provenivano molti altri; uno spazio dove ho fatto esperienze importanti. Quando ho realizzato di averlo perso per sempre ne ero già lontano. Ora è un luogo inagibile anche per la memoria. Ecco perché mi rimane difficile parlarne.

A riportalo (virtualmente) in vita c’è ora un progetto nato circa un mese fa dalla collaborazione del motore di ricerca Google, il Comune dell’Aquila, e l’ANFE (Associazione nazionale famiglie emigrati). L’obiettivo? Ricostruire la memoria dell’Aquila a due anni dal terremoto che l’ha distrutta, usando la multimedialità e le nuove tecnologie del web 2.0. Per riscoprire una piccola parte della città e delle storie dei suoi abitanti è sufficiente entrare nel sito www.noilaquila.com e trascinare il mouse sulla cartina. Cliccando su uno dei tanti siti del centro storico, si può accedere a fotografie, video e piccole testimonianze che ricordano i singoli angoli del centro abruzzese e caricare i propri contenuti.

Qui trovate un mio articolo sull’iniziativa. Qui una fotogalleria.



“La geografia è destino” affermava Napoleone in termini geopolitici. Io credo che la geografia possa essere considerata “destino” anche in termini esistenziali. Credo che le strade che abbiamo attraversato, le case dove abbiamo vissuto, le piazze dove ci siamo fermati, ci parlino di noi e determinino quello che siamo, come poco altro sa fare. Questa è la forza del progetto: considerare la città come un gomitolo di relazioni, storie, desideri, piuttosto che come uno spazio meramente abitativo.

Le bevute e le discussioni (utopiche, stupide, arrabbiate, divertenti e spesso interminabili) fino alle prime ore della mattina in un locale che non scorderò. Il Montepulciano, gli scacchi, la musica reaggae (si proprio reggae) e i panini al formaggio. Un brindisi “alle osterie di fuori porta”. Le ragazze (o meglio le "quatrane") sul corso della città il giovedì sera. La mia mano stretta a un’altra su un sagrato dopo una notte insonne. Lo scroscio di una fontana nel freddo. Hallelujah di Jeff Buckley, una macchina spenta, due sigarette accese e la città di ghiaccio sotto: sono le prime cose che mi vengono in mente pensando a questa città. Non so se possono fregare qualcosa a qualcuno. So che io sono divertito a ricostruire la città sulle testimonianze dei suoi abitanti, cercando di sovrapporre le mie. Credo sia un bel modo di utilizzare gli strumenti del web 2.0, specie nel momento in cui molte tecnologie nate come strumenti di interazione e condivisione, si trasformano in strumenti di narcisismo e autoreferenzialità diffusa. E’ un’idea del web sana, una speranza che avevo più di dieci anni fa, quando intravedevo in questi strumenti uno strumento di narrazione ed estensione delle consuete sfere di esperienza.

Quello che certo è che nessun archivio digitale basterà mai a sanare la realtà. Il centro storico dell’Aquila a due anni dal terremoto è ancora un ammasso di detriti, un cantiere fermo. Il terremoto che l’ha distrutta è solo l’ennesima emergenza sfruttata strumentalmente per fini elettorali e presto abbandonata. Quel che resta della città lo potete vedere nel filmato sopra. Vale più di molte parole. Quel che è certo è che l'Aquila non fa più parte dell’agenda setting nazionale. Io credo che in quelle macerie si nasconda molto di più di una città che non c’è più, quanto il crollo di un’intera classe dirigente. La fine dell’ “arte di arrangiarsi” e dell’“attesa del miracolo”, attività particolarmente predilette dai miei connazionali. Credo che sia questo il suo peccato originale a due anni di distanza. E dei peccati ci hanno da sempre insegnato a non parlare. Si cerca un confessore e un assoluzione al massimo. Qualcosa di confortante per poter continuare a peccare ancora.

lunedì 4 luglio 2011

Piccolo spazio pubblicità

Vi rubo qualche minuto per promuovere un'ottima causa. Chiara disegna e vende T-Shirt e gadget su internet da un pò, che potete trovare a questo indirizzo: http://www.chiaralascura.it, un progetto nato nove mesi fa, dopo uno dei tanti italici stage, fucine legalizzate di mano d'opera a costo zero. Chiara ha cominciato a disegnare e venderle sul suo suo sito, attraverso un uso ragionato dei blog, del passaparola e dei social network, trasformando una semplice passione in un lavoro. Quello che chiede è un piccolo contributo per continuare fare quello che sta facendo. Io, da parte mia, non potrei mai perdonarmi di vederla dentro un ufficio a compilare dichiarazione dei redditi o a concepire a gratis campagne pubblicitarie di carte igeniche biodegradabili a 500 euro al mese. Quindi mi appello anche a voi. Potete farlo qui.

Primo perchè siamo fratelli, oltre che amici, qualcuno ci ha diviso alla nascita e dobbiamo ancora scovare chi è stato. Secondo perchè lei fa parte di una specie in via d'estinzione, un'artista-artigiana di quelle vere, capace di esprimere la propria creatività in più ambiti, dalla musica al disegno, dalle battute al suo matrimonio, senza tirarsela minimamente. Terzo, perchè è una persona che sa farti arrivare alla profondità con semplicità, facendoti spesso anche sorridere, e questa è davvero una prerogativa di pochi.

Aiutate Chiaralascura a crescere. Eppela project. from Chiara Meloni on Vimeo.

Piccola nota a margine. Io e Chiara, ci siamo incontrati a Firenze due anni fa per frequentare un master in Multimedia content design. E' stato un bell'anno, duro per certi versi, divertente per tanti altri, che mi ha portato a conoscere persone stupende. Io prima lavoravo come copywriter in un'agenzia pubblicitaria. La mia vera passione credo fosse la scrittura, e lo è ancora adesso (probabilmente). Credo che tutti quelli che hanno fatto questo percorso, non parlo ovviamente del corso di studi, quanto dell'approfondimento di quelli che vengono ribattezzati i new media, siano stati mossi dalla consapevolezza che gli equilibri economici, produttivi e sociali stavano inesorabilmente mutando. Non è un cambiamento privo di zone d'ombra e sicuramente non esente da problematiche. Non sarò mai un positivista, tantomeno un positivista dei nuovi strumenti di comunicazione. Molte dinamiche però stanno cambiando. Sul web oggi si pubblicano e si autoproducono e vendono libri da un milione di copie, fenomeno che al di là della qualità dell'esempio citato, costituisce un precedente interessante, capace di mettere in discussione il potere di molti gruppi editoriali tradizionali. Sul web si produce informazione indipendente, che spesso non ha nulla a cui invidiare a quella dei canali ufficiali; Fortress Europe di Gabriele Del Grande, sui migranti invisibili del Mediterraneo è il primo esempio che mi viene in mente. Nella rete si valorizzano quotidianamente musica e tendenze culturali realmente indipendenti, come nel caso dello splendido Indietravel, blog e programma radiofonico di due amici. Sono segnali importanti di vitalità, che si fanno largo tra l'overflow informativo a cui siamo quotidianamente esposti e le coltri di una struttura economico-sociale vecchia, triste e corporativa. Scorgerli è importante. Sostenerli e renderli, per quanto possibile realtà , ancora di più.

mercoledì 29 giugno 2011

martedì 14 giugno 2011

Cronaca dell'alluvione #1

Fu durante il periodo dell'alluvione che non ci facemmo più caso. Succedeva che le parole si sovrapponessero fino a emanciparsi definitivamente dalla loro funzione. Qualche tempo prima, ad esempio, era avvenuto che il termine “guerra” potesse essere abbellito di aggettivi per designare la parola “pace”, che la parola “serenità”, assumesse il significato di “inquietudine” e così via. Ma questi erano solo lontani retaggi orwelliani. Il più delle volte le parole sfuggivano semplicemente dai loro legittimi proprietari, allontanandosi dai significati senza centrarli più. Qualcuno imputava la colpa ai significati. Altri si scagliavano contro la produzione esponenziale di frasi, parole, narrazioni, slogan. Non ci è dato sapere chi avesse ragione. Qualcun altro aveva capito il gioco e le usava abilmente come armi da guerra, pronte a stordire, distogliere, distrarre. La produzione di “altre realtà” e “verità” divenne presto anche il nostro passatempo preferito. Fra queste realtà ci aggiravamo eccitati e confusi . Altri obiettavano che presto sarebbe stato difficile dimostrare qualsiasi cosa. Qualcuno affermava che la forma di controllo più raffinata era quella del labirinto. Chi è dentro vuole soltanto uscirne e per farlo deve procurarsi informazioni. Ma cosa fare quando è lo stesso accumulo di informazione a creare il labirinto?


Emersero due nuove figure antropologiche. I primi li sorprendevi a scrutare segni nel cielo e nella rete, scavare tra le pieghe di un medioevo illusorio, tra coordinate bancarie e lignaggi di sangue. Si nutrivano di qualsiasi frammento di informazione, fino a farlo diventare segno, rivelazione di una verità invisibile ai più. Perno centrale del loro pensiero, l’esistenza di un ordine gerarchico, di un cabina di comando che predisponeva e reggeva il labirinto. Ne derivava un’attività intensa, imperniata sulla produzione di verità e sospetti, che portava ad ispessire ulteriormente le mura che si prefiggevano di abbattere. I secondi non erano invece una categoria nuova, vantando una tradizione filosofica di tutto rispetto. Il cinico dei tempi dell’alluvione era però anch’esso figlio del labirinto. Ammettendo di non poter giungere a nessuna verità, questa categoria preferiva rintanarsi nel sarcasmo. La sua attività primaria era la decostruzione intelligente e sistematica di verità, certezze, intenzioni e slanci. Anche il cinico contribuiva a solidificare le mura del labirinto. Noi continuavamo a camminare, senza nessuna scelta. Eravamo drogati di pagine strappate, insegne arruginite, immagini scrostate. Invisibili, alle nostre spalle, i cani addormentati nell’estate, le ginocchia sbucciate dei ragazzi, le ragazze con i vestiti a fiori, i racconti dei padri, l’odore di sterco e di primavera, e i mezzi che qualche volta si trasformano in fini. A volte ci capitava di voltarci, di tendere una mano, portare a centro l’unica parola giusta che ci era concesso scovare, concedere gli occhi, la mente e i giudizi al silenzio. Con ingenuità forse, ma senza nessuna superficialità. Durava appena un istante. Ma se alzavamo gli occhi non c’era nulla attorno. Solo un sentiero non tracciato che reclamava i nostri passi. Prima dell’alluvione si sarebbe chiamata ancora “libertà”.

sabato 11 giugno 2011

Due o tre cose che so di lei

C’è una linea sottile che attraversa ogni giovinezza. Un punto dove capiamo di esserci allontanati per sempre dal bagnasciuga, tra la costa ormai lontana e le correnti che vorrebbero spingerci a largo. C’è una sera di lampioni sparsi, quando tornando a casa, ci sembra di non poter sopravvivere, senza aver delineato meglio il contorno e l’ombra delle cose. Non c’è giovinezza senza la scoperta, anche inconscia, di una basilare verità: il mondo è superiore alla nostra capacità di racchiuderlo. E’l’inconsapevolezza a suggerircelo, quella di noi stessi innanzitutto. C’è un istante nella nostra vita, quando i confini tra noi e il mondo sono labili. Sono “Le quiete stanze e le vie intorno” a chiamarci. La virtù di questo richiamo è la bellezza, il prezzo la vulnerabilità. Ci si ritrova attorniati dalle sirene come Ulisse. Ognuna ci racconta, una favola diversa su noi stessi, ognuna l’arcangelo di una diversa possibilità. C’è qualcosa di estremamente vitale e autodistruttivo in questo. In una delle sue poesie più belle, Dylan Thomas l’ha sintetizzato in questi versi: “La forza che attraverso il calamo sospinge il fiore/ E’ quella che sospinge la mia verde età/ Quella che spacca le radici degli alberi/ E’ la mia distruttrice”.



Io questa forza l’ho ritrovata negli scatti di Francesca Woodman, in una piccola mostra vista recentemente a Roma. E’ un universo enigmatico quello di Francesca, perché enigmatica è la ricerca adolescenziale e giovanile di un volto da mostrare al mondo e soprattutto a sè stessi. Nei suoi scatti è spesso presente il suo corpo, raramente il suo viso. Un corpo sensuale, simbolico, pronto a farsi significante e metafora di una “realtà altra”, ma quasi mai riconoscibile. La realtà sognata dalla Woodman è del tutto priva di denotazione. Sono strati di luce pronti a stratificarsi, a farsi rivelazione, epifania di traiettorie interiori e possibilità. Scatti che mostrano una fiducia sincera nei confronti dell’immagine, proprio nel periodo in cui il loro processo di significazione entra definitivamente in crisi. Ogni fotografia è un tentativo, per dirla con le parole di Montale, di rintracciare “Il punto morto del mondo, l'anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità”. C’è qualcosa di terribilmente giovane e grandioso in questo. Una vulnerabilità che diventa apertura, e che abbatte ogni filtro tra l’artista e il mondo. Uno iato sottile tra consapevolezza e inconsapevolezza, interiorità e esteriorità.
Da questo iato proviene la luce che dà forma al suo universo, da qui, la sua inquieta grandezza.

Qui trovate un mio articolo sulla mostra. Qui la fotogalleria.

lunedì 30 maggio 2011

Il muro e le mani

Aspettavamo in tanti questo giorno. Non mi va di parlare di italica politica, quasi mai. E non sono certo un sostenitore entusiasta di questa opposizione. Credo che il dibattito da affrontare sia più profondo, che colui che ci sta governando da vent'anni sia solo l'apice della crisi strutturale di un sistema e che questa Penisola sia solo l'avanguardia di questo processo. Però vedere questa ciurma da tribunale di 10 punti sotto a Milano e di svariati punti sotto a Napoli, qualche piccola soddisfazione me l'ha data. Io credo (e incrocio tutte le dita che ho) che il Berlusconismo stia svolgendo a termine. Credo però anche, che senza un'analisi seria e profonda delle strutture di potere che l'hanno consolidato, dei modelli culturali sul quale è proliferato, della tipologia di dibattito che ha introdotto, delle strutture di contropotere che ha creato e delle mutazioni antropologiche che ha innescato, non si andrà molto lontano. Per dirla alla Gobetti, Berlusconi è stato (ed è tuttora) l' "autobiografia della nazione" degli ultimi venti anni e forse non solo. Non è il primo brutto ritratto che ci è toccato contemplare, e se non cominciamo a guardarci bene in faccia, temo che non sarà nemmeno l'ultimo. Rischiamo piuttosto di trovarci come il bambino della splendida canzone di De Gregori qui sotto, a guardare il muro e guardarci le mani. Stanotte però mi godo l'aria di maggio alla finestra, accendo una sigaretta e mi rallegro dei gatti e delle voci che si inseguono qui intorno. Stanotte mi addormento forse un pò più leggero. 'Notte.

mercoledì 25 maggio 2011

L.

I'd like to read
one of the poems
that drove me into poetry
I can't remember one line
or where to look

The same thing
happened with money
girls and late evenings of talk

Where are the poems
that led me away
from everything I loved

to stand here
naked with the thought of finding thee




Vorrei leggere
una di quelle poesie
che mi fecero diventare poeta
Ma non ne ricordo un solo verso
nè so dove cercare

Stessa cosa col denaro
le ragazze e le lunghe serate
di conversazioni

Ma dove finite le poesie
che mi hanno allontanato
da tutto ciò che amavo

depositandomi qui
nudo con l'ossessione di cercarti

(Leonard Cohen "L'energia degli schiavi")

lunedì 23 maggio 2011

Distanza

Da dove quella luce sia filtrata non lo saprai mai. Ci sono le tue scarpe slacciate per terra. C'è qualche libro socchiuso. Ci sono le tue mani. Qualcosa che arriva come una coltellata, non altro. La tua testa appoggiata a un finestrino, intere colazioni di mandorle e ortiche, tutto in quella distanza. Piazze, strade, bar, pioggia, sole, poi ci sei tu, nudo. Quando se ne va, guardi ancora in quegli occhi. Non ci sei più. Quello che hai visto non è mai esistito, lo sai. Ti ha disegnato come sa farlo solo una bugia. A volte non c'è nulla di più vero di una bugia. Ci si incarna per pochi istanti, ti dici. Rimane solo il mattino di luce acceante dove devi camminare. Rimane un vicolo, i panni stesi, la vecchia zingara all'angolo. Le dai tutti gli spicci che hai in tasca, accendi una sigaretta. Allora puoi solo voltarti e scivolare lontano dalle labbra e dalle gambe dove ti eri nascosto. Dallo specchio dal quale non sorriderai più.

lunedì 25 aprile 2011

Buon 25 aprile a tutti

di Claudio Magris

Non è stato solo il Terzo Reich a proclamarsi e a credersi destinato a durare mille anni, anche se è durato solo dodici, meno del mio scaldabagno. Ogni potere, soprattutto ma non solo quello totalitario, ogni civiltà, ogni sistema di valori e di costumi si vogliono e si ritengono definitivi; siamo inclini a scambiare il presente, l’assetto delle cose che ci circondano, per l’eterno, qualcosa che non può cambiare. In questo senso, siamo quasi tutti ciechi conservatori, incapaci di credere che il nostro mondo— la politica, le gerarchie sociali, gli usi, le regole — possa mutare. Se nell’ottobre del 1989 qualcuno ci avesse detto che il muro di Berlino sarebbe presto caduto, lo avremmo preso per un ingenuo sognatore. Forse chi ha il senso religioso dell’eterno è più protetto dalla supina adorazione idolatrica di quel momento di tempo in cui vive e delle momentanee ed effimere forze che in quel momento appaiono vittoriose e insostituibili. Le cose invece cambiano, i muri cadono, ma l’idolatria del momento, che impone di essere «al passo dei tempi» , permane, profondamente radicata nel cuore e nella mente. Caduto il muro di Berlino che pareva eterno e con esso tutto il sistema comunista, uno studioso si è affannato a enunciare, con una celebre frase poco intelligente, che «la storia è finita» e dunque che il mondo sorto dal crollo del comunismo era quello definitivo, destinato a durare — con il suo meccanismo politico, le sue strutture economiche, il suo stile di vita — per sempre.

Semmai è vero il contrario; quel muro congelava o cercava di congelare la storia, che invece oggi è vertiginosamente instabile, imprevedibile e mutevole. Sono soprattutto le dittature — quelle «molli» che soggiogano con strumenti economici, mediatici e culturali, e ancor più quelle «dure» che s’impongono direttamente con la forza bruta — che si presentano come l’unico sistema, l’unica realtà possibile. Le dittature invece cadono e il 25 aprile ricorda la caduta di quella fascista in Italia. C’è poco da aggiungere a quanto è stato detto tante volte sull’antifascismo e sulla Resistenza, sull’imperituro significato di quest’ultima quale liberazione nazionale, sulle sue contraddizioni, sulle sue diverse e contrastanti anime, sui suoi eroismi e sui misfatti compiuti in suo nome.

Il 25 aprile simboleggia vent’anni di un’altra Italia, differente da quella del regime fascista; una resistenza che non è solo quella partigiana, ma anche quella di coloro che non si sono piegati quando un’altra Italia sembrava impossibile; di coloro che si sono opposti nettamente e clamorosamente, nella lotta clandestina, ma anche di chi, più modestamente, ha cercato di salvare il salvabile di dignità e ragionevolezza, senza eroismi ma con la capacità di non lasciarsi abbagliare dall’ «aria del tempo» , di respingere la tentazione di «marciare con la Storia» , di preservare quell’intelligenza critica che non si lascia sedurre dai belati del gregge, neanche quando sembrano ruggiti di leoni. Ogni resistenza ha una componente pasquale, di resurrezione; è un risorgere dalla morte, da quella falsa vita che si spaccia per immutabile e definitiva ossia finita e dunque morta. Anche oggi, dinanzi al dilagare di confusione, volgarità, prepotenza, corruzione, sconcezza che sommerge il Bel Paese come liquami che salgano dalle fognature, è forte la tentazione di arrendersi, di lasciarsi andare, di credere che l’andazzo disgustoso sia uno stadio ultimo, che una vera mutazione antropologica abbia creato un nuovo tipo d’uomo, un non-cittadino, e che questa specie, nella selezione darwiniana, sia fatalmente dominante.

L’indifferenza che mette in soffitta la Resistenza vera e propria e l’attentato alla Costituzione, che da essa è nata e che è la spina dorsale dell’Italia civile, sono un sintomo fra i tanti di questa involuzione morale. Ma proprio quella data insegna a non scoraggiarsi; ricorda come credere che tutto sia perduto e che non si possa più reagire sia una tentazione, stupida come lo sono in genere le tentazioni. C’è un’altra Italia possibile, rispetto a quella che oggi subiamo. Non è il caso di fare inchini al mondo così com’è e come esso pretende, anche perché, se proprio si è costretti a farlo, ci si può inchinare come Bertoldo, che si piegava davanti ai potenti, ma voltandosi dall’altra parte.

("25 Aprile: un antidoto all'indifferenza" dal Corriere della Sera del 24/04/2011)


giovedì 14 aprile 2011

Tra le storie di ieri

Un’Italia fatta di stracci e nebbie, di dita sporca e sante processioni, un Paese di mura diroccate e bambini che guardano altrove. Qui un mio articolo sulla (bella) mostra dove potete ancora avvistarla. Sotto, la colonna sonora.

sabato 9 aprile 2011

Due o tre segnalazioni

Poco tempo per scrivere. Sono giornate intense fra lavoro e impegni. Roma si sveste e oltre al traffico e ai soliti, estenuanti ritardi dei mezzi, si rivede il cielo. Non è una città facile Roma. Specialmente se non sei nato qui. Tutto si arrampica verso l'alto, dalle case alle chiese, ai resti di un passato che continua a sovrapporsi al presente. Ma questo cielo io l'ho visto solo qui. Un largo corridoio che sa proiettarti in un istante lontano. Una ferita che sa di "altrove". Cammino per il "Quadraro", il mio quartiere. Alberi fioriti, il macellaio con su Bob Marley, italianissime nonne mano nella mano con bei bambini dai tratti orientali o africani, acquedotti romani e colline in lontananza. A breve lo abbandonerò e penso che (inaspettatamente) mi mancherà molto.

Tornerò con più convinzione su queste pagine. Qui intanto trovate un mio raccontino e un'iniziativa interessante del Ponticello, che tra una birra e un campari, spero torneremo a distribuire presto.

Qui la bella iniziativa di un'amica. E' una sorta di "diario dal mondo", un quaderno di appunti multimediale per condividere pensieri e sensazioni, ovunque vi troviate. Una bella idea, specie per chi ha molti amici sparsi. Potete partecipare tutti, sia alla prima che alla seconda.

Sotto infine trovate una bella canzone. Primo perchè poche cose sono più sensuali della voce di Nada. Secondo perchè la chitarra di Zamboni ha accompagnato la mia adolescenza. Terzo perchè oggi mi ispira un senso di serenità, tra le luci che si accendono pian piano lì fuori. A presto.


sabato 5 marzo 2011

Dell'inverno, di un libro dimenticato e della possibilità di una strada

Non scrivo da un po’. Questo inverno ha significato tante cose, oltre al paio di mani ben screpolate che battono su una tastiera. Tra le tante cose porto con me un libro. Lo porto solo in mente, perché in realtà l’ho lasciato nel pulman che mi riportava a casa. Forse è un segno. Immagino che sia tra le mani di qualcun altro adesso. Qualcuno che sappia amarlo almeno quanto ho fatto io.

Il libro parla di un mondo agonizzante e di un cammino. Di una strada che condurrà i due protagonisti verso la salvezza, o forse verso nulla. Non c’è niente che renda appetibile l’esistenza. Una larga apocalisse, della quale non riusciamo a intuire la causa, ha sconvolto completamente le basi della vita sul pianeta. La terra è una fredda landa senza più sole, né cibo; una landa dominata da tempeste di cenere e bande di predoni cannibali. Perchè camminare? Ha senso sopravvivere a queste condizioni? Se lo chiede anche il protagonista. La risposta è nei passi che lo succedono, i passi di suo figlio. Non c’è scelta. Perché il significato della “strada” va oltre la sua stessa esistenza. L’uomo è l’ultimo punto di una retta che contempla punti innumerevoli. Il punto successivo è costituito dai passi che lo succederanno. Continuerà a camminare verso sud nella speranza di “sole e temperature miti”. Nel sogno di un’umanità diversa. Un’umanità che probabilmente solo suo figlio conoscerà. Lui è il futuro. La storia è nei suoi passi. In un’esistenza ridotta alla primordialità è questa l’unica certezza che rende indispensabile il cammino.



Siamo immersi in tante ossessioni e tabù, dei quali non riusciamo più ad accorgerci. Fino a quando un morso non ci risveglia. L’arte serve anche (e soprattutto) a questo. Il romanzo ha fra i tanti pregi quello di darci questo morso: infrangere il tabù dell’individualismo totalizzante. Senza retorica. Senza troppe concessioni al buonismo. Ha il pregio di ricordarci che le nostre vite possono avere un significato che va oltre le nostre individualità. La “Fine della storia” tanto celebrata nei primi anni di questo secolo, oltre alla fine della dialettica fra le forze sociali, conteneva anche questo: la fine di una progettualità che travalicasse le nostre esistenze e il culto dell'immediato. Uno scenario comodo per un determinato assetto economico e politico, sul quale non intendo soffermarmi. Il romanzo è invece una sorta di grido d’amore. E’solo questo amore che è capace di rimettere in moto il tempo.
Anche questi giorni assomigliano talvolta una sorta di universo post-apocalittico, quantomeno dal punto di vista politico, etico, sociale, culturale.
Ogni "pagina vera" è uno spiraglio verso un altro universo. Occhi nuovi per osservare quello che hai attorno. Da queste pagine porto con me la speranza di una strada. Di un sentiero da percorrere fino in fondo. Di un cammino da non percorrere necessariamente solo.

P.S. = Avete indovinato il libro? Non è così difficile