martedì 14 giugno 2011

Cronaca dell'alluvione #1

Fu durante il periodo dell'alluvione che non ci facemmo più caso. Succedeva che le parole si sovrapponessero fino a emanciparsi definitivamente dalla loro funzione. Qualche tempo prima, ad esempio, era avvenuto che il termine “guerra” potesse essere abbellito di aggettivi per designare la parola “pace”, che la parola “serenità”, assumesse il significato di “inquietudine” e così via. Ma questi erano solo lontani retaggi orwelliani. Il più delle volte le parole sfuggivano semplicemente dai loro legittimi proprietari, allontanandosi dai significati senza centrarli più. Qualcuno imputava la colpa ai significati. Altri si scagliavano contro la produzione esponenziale di frasi, parole, narrazioni, slogan. Non ci è dato sapere chi avesse ragione. Qualcun altro aveva capito il gioco e le usava abilmente come armi da guerra, pronte a stordire, distogliere, distrarre. La produzione di “altre realtà” e “verità” divenne presto anche il nostro passatempo preferito. Fra queste realtà ci aggiravamo eccitati e confusi . Altri obiettavano che presto sarebbe stato difficile dimostrare qualsiasi cosa. Qualcuno affermava che la forma di controllo più raffinata era quella del labirinto. Chi è dentro vuole soltanto uscirne e per farlo deve procurarsi informazioni. Ma cosa fare quando è lo stesso accumulo di informazione a creare il labirinto?


Emersero due nuove figure antropologiche. I primi li sorprendevi a scrutare segni nel cielo e nella rete, scavare tra le pieghe di un medioevo illusorio, tra coordinate bancarie e lignaggi di sangue. Si nutrivano di qualsiasi frammento di informazione, fino a farlo diventare segno, rivelazione di una verità invisibile ai più. Perno centrale del loro pensiero, l’esistenza di un ordine gerarchico, di un cabina di comando che predisponeva e reggeva il labirinto. Ne derivava un’attività intensa, imperniata sulla produzione di verità e sospetti, che portava ad ispessire ulteriormente le mura che si prefiggevano di abbattere. I secondi non erano invece una categoria nuova, vantando una tradizione filosofica di tutto rispetto. Il cinico dei tempi dell’alluvione era però anch’esso figlio del labirinto. Ammettendo di non poter giungere a nessuna verità, questa categoria preferiva rintanarsi nel sarcasmo. La sua attività primaria era la decostruzione intelligente e sistematica di verità, certezze, intenzioni e slanci. Anche il cinico contribuiva a solidificare le mura del labirinto. Noi continuavamo a camminare, senza nessuna scelta. Eravamo drogati di pagine strappate, insegne arruginite, immagini scrostate. Invisibili, alle nostre spalle, i cani addormentati nell’estate, le ginocchia sbucciate dei ragazzi, le ragazze con i vestiti a fiori, i racconti dei padri, l’odore di sterco e di primavera, e i mezzi che qualche volta si trasformano in fini. A volte ci capitava di voltarci, di tendere una mano, portare a centro l’unica parola giusta che ci era concesso scovare, concedere gli occhi, la mente e i giudizi al silenzio. Con ingenuità forse, ma senza nessuna superficialità. Durava appena un istante. Ma se alzavamo gli occhi non c’era nulla attorno. Solo un sentiero non tracciato che reclamava i nostri passi. Prima dell’alluvione si sarebbe chiamata ancora “libertà”.

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