sabato 30 giugno 2012

Il blog si sposta

Avviso ai (pochi) naviganti di questo blog,  ignorato anche dall'autore, in questi ultimi tempi. Dopo due anni, ho finalmente ridisegnato il sito in Wordpress, presto mi auguro di trovare anche il tempo per riscriverci qualcosa. Fattostà che  il blog si sposta. Potete continuare a leggermi qui.  A Presto.

Daniele

lunedì 19 marzo 2012

Liberi tutti

Qualche tempo fa, mi è capitato di imbattermi in un' illustrazione geniale. Nella vignetta un omino esultava e la didascalia recitava più o meno così: “Evviva. Sono disoccupato, da domani si torna a sognare”. Come scrivo spesso, non mi piacciono le beghe italiche e non mi curo troppo di politica, soprattutto di politica italiana. Credo che in parte abbia a che fare con l’istinto di autoconservazione, in parte con la consapevolezza che cercare soggetti e referenti credibili sia diventato, da troppi anni, un po’ come continuare a cercare del vino in una riunione di alcolisti anonimi . Nonostante tutto, da un po’ di mesi, o forse dalla celebre espressione “Il lavoro fisso che monotonia” di Monti, continuo a imbattermi, in post come questi . Tralasciando tutte le tiritere sulla modifica dell’articolo 18 e sulla (necessaria) riforma del mercato del lavoro, sono molto colpito da questo Paese che si rimette in moto e sfida apertamente l’indolenza delle sue stirpi. La scoperta del “Self made man”. Cento anni dopo. Magari proprio mentre quel modello si sgretola. Dettagli.

Mi colpisce soprattutto che molte di queste esortazioni arrivino da “sinistra”, generalmente accompagnate dalla retorica sulle potenzialità della rete (a cui credo) , dall’enfatizzazione delle capacità personali e da una lista di persone- meglio se under 30- che “ce l’ha fatta”.

Peccato che ci si trovi nel paese più corporativo d’Europa, in cui serve serve un patentino anche per potare i platani. Una nazione in cui la stragrande maggioranza dei "giovani" - la giovinezza ormai è uno stato dell'anima- non ha mai sperimentato l’ebbrezza nemmeno di un contratto a tempo determinato.



Peccato che non tutti siano nati per essere intraprendenti, istruiti e pronti a raccogliere le sfide. Una collettività non si costruisce solo con i bit e con le idee. Si costruisce anche (e soprattutto) con il sudore, con la fatica quotidiana e anonima, di tanti per cui la parola lavoro è un male necessario per sopravvivere, più paragonabile all'etimologia della parola francese “Travaille” che al suo corrispettivo italiano. Andate a parlare di “sfide” e di opportunità a un operaio metalmeccanico o a un dipendente di un’impresa edile. A un cinquantenne con famiglia a carico che non riesce a ricollocarsi nel mercato del lavoro. O a chi magari una famiglia la vorrebbe e si dibatte tra lavori precari in tre call center diversi. Magari a chi ha perso il lavoro, perché il padrone ha deciso che investire in Romania costa meno. Dettagli.

Il tutto viene poi agganciato all'idea di libertà. La libertà già. Da sempre un concetto rischioso. In quel bel libro che è Storia della libertà americana, Eric Foner, tratteggia un’evoluzione di questo concetto durante la storia statunitense. Durante l’ottocento, il termine “libertà”, serviva ad esempio a legittimare la volontà dei grandi latifondisti del sud degli States di possedere schiavi. In tempi più recenti si potrebbero sottolineare cose curiose come il terribile “Arbeit macht frei” dei campi di concentramento nazisti o il grottesco “Casa delle libertà” di berlusconiana memoria. Sono i primi tre esempi che mi vengono in mente. Nella fattispecie, io non vedo che tipo di “Libertà” sia quella di cui si sta parlando. La libertà di ripartire continuamente da zero? Di non avere mai un centro? Di inseguire continuamente il mercato e le opportunità? Leggittimo, ma perché questo modello dovrebbe essere valido per tutti? E perché non vale anche per il bengalese clandestino che mi pulisce il vetro e deve scappare quando vede una volante della polizia?

Credo insomma che la parola “libertà” sia un po’puttana, va maneggiata con cautela. Specie quando la si sgancia dal concetto di responsabilità individuale. Alcuni l'avevano formalizzato già un bel po' di tempo fa. Persone per cui un motto, oggi assai in voga, come “Think different” non era solo un bel copy per vendere prodotti informatici, ma una necessità. Una garanzia di integrità.

domenica 19 febbraio 2012

Tra i fantasmi

L’Italia, un paese con troppi anniversari. Esistono date, indirizzi e lapidi, che hanno cambiato per sempre la storia di questo Paese. Fra qualche giorno, il 22 febbraio, ricorrono i 32 anni della morte di Valerio Verbano. Valerio era un ragazzo romano di 19 anni, freddato in casa il 22 febbraio del 1980 da tre uomini armati. Terribile la dinamica: gli assassini penetrano dentro casa, imbavagliano i genitori e aspettano il suo ritorno, per poi ucciderlo con un colpo di pistola. Un'esecuzione politica. Perché pur avendo meno di vent’anni Valerio stava indagando sui movimenti neofascisti della capitale. Aveva redatto un vero e proprio dossier, corredato di nomi, fotografie, testimonianze. Un documento che non si limitava a schedare unicamente l’eversione di destra, ma sembrava ipotizzare inquietanti correlazioni tra quest’ultima e pezzi dello stato, come politici ed esponenti delle forze dell’ordine.

Lo spettacolo teatrale “Rosso Vivo” al quale ho avuto la fortuna di assistere ieri sera, rievoca la vicenda da un punto di vista privilegiato. Quello di una madre che da 32 anni non riesce a darsi pace. Un intenso reading teatrale dove l’attrice Alessandra Magrini riesce ad alternare rimorsi, riflessioni e ricordi, fornendoci gli strumenti per orientarci nell’ambiguità di quel delitto e di quegli anni.



Carla Verbano cerca ancora i mandanti dell’omicidio di suo figlio. Carla è una donna ancora capace di documentarsi, studiare, apprendere perfino l’utilizzo di nuove tecnologie informatiche per cercare di capire le ragioni di tanta efferatezza. Ha scritto anche un libro la signora Carla. Si chiama “Sia folgorante la fine”, un titolo splendido. Perché la parola “fine”sull’omicidio Verbano non è stata mai posta. E se nel febbraio del 2011 la procura di Roma ha dichiarato la riapertura delle indagini, del “Dossier Verbano”, per cui perse probabilmente la vita anche il magistrato Mario Amato, si sa ancora poco o nulla. Toccante la fine dello spettacolo, dove la madre ricorda “Mi hanno detto che le foto del dossier di Valerio erano buie o fuori fuoco. Strano, Valerio fotografava da anni. Allora ipotizzo che quel buio, sia diventato il buio di questi anni. Il buio di tutti”.

Quando si parla degli italiani come popolazione con “scarsa fiducia nelle istituzioni”, forse si dovrebbero ricordare anche queste vicende. Ho in mente ancora le parole di Giuliano Amato, allora Presidente del Consiglio, in occasione dell’anniversario della strage di Bologna, oltre dieci anni fa, quando parlava di "bugie, connivenze e appoggi nello Stato" in uno dei più terribili massacri di civili dal dopoguerra in poi sul suolo patrio. Come ammettere l’esistenza di un Bava Beccaris invisibile, a cento anni di distanza.

Viviamo in un Paese dove si preferisce dimenticare. Ma le rimozioni non hanno mai risolto nessun trauma, ce lo ricorda la psicologia. Si allontana solo il problema per un po’ e ci si illude di ritornare a respirare. Tra i fantasmi.

lunedì 30 gennaio 2012

Harvest

Colonnina di mercurio sotto lo zero e cielo plumbeo. Eppure mi piace guardar fuori dalle finestre questi giorni. Ripensare a dei pomeriggi. Pomeriggi rintanato tra un garage e un ufficio, fra l'odore di benzina e quello di caffè, ad ascoltare un disco. Le foto di un vecchio ragazzo dai capelli lunghi nella copertina e negli inserti del vinile. Quattro accordi e qualcosa che sapeva proiettarmi oltre. Oltre le tre del pomeriggio, il cielo irreale di agosto e la monotonia di una piccola località balneare. Me ne stavo lì in controluce, ipnotizzato a fissare tutta la polvere che lo separava dalla mia età. Non comprendevo ancora il significato delle parole, ed è buffo, credo di aver provato poche volte quella strana sensazione di libertà che avvertivo quando il disco cigolava difettoso su quella puntina. Quella voce sapeva portarmi lontano. Evocare strade, storie e malinconie che riuscivo malapena a immaginare.



Torno ancora lì quando posso. Meglio se lontano dall'estate, senza turisti nè altoparlanti gracchianti. Torno perchè lì sono i miei affetti, qualche piccola radice, qualcosa che il vento non tocca. Ricordo di un inverno passato ad addormentarmi tra i treni di passaggio e il mare, gli unici rumori presenti, i migliori, dopo una giornata di lavoro. Mi sentivo completamente solo, non ne avevo nessuna paura. Chiudevo gli occhi: "Sto seminando" mi dicevo. Non sapevo di cosa si trattasse, ma sapevo che da quel volontario isolamento stava rinascendo qualcosa.

Tutte quelle volte che ho sentito di non avere troppa terra sotto ai piedi, ho cercato di tenere a mente quel pezzetto di mare. Quel mare stupido, quell'acqua che sembra riflettere sempre e solo l'immagine di te stesso per non portarti mai a nulla. Lì mi sono specchiato, lì ho provato a osservarmi per la prima volta. L'odore salmastro dopo una giornata di pioggia e la stessa sensazione: non si è mai prigionieri finchè si riesce a concepire un "altrove". Non importa se dorma al tuo fianco, sia incagliato nell'altra parte del mondo, esista solo nella tua testa o ti sorprenda tra i quattro accordi di una canzone come questa.

"Will I see you give, more than I can take? Will I only harvest some? As the days fly past will we lose our grasp, Or fuse it in the sun?" canta Neil. Me lo chiedo anche ora. Quelle poche volte che sono stato così fortunato da chiedermelo, penso, stavo già raccogliendo qualcosa.

mercoledì 18 gennaio 2012

Una bancarotta semantica

16 settembre 2011, Salonnico. Apostolos Polyzonis, uomo d’affari di 55 anni si dà alle fiamme. In una sequenza di foto che diventerà una delle icone visive di dello sciagurato 2011 che ci ha da poco abbandonato, si intravede l’uomo imbracciare una tanica di benzina, cospargersi di combustibile e prendere fuoco, mentre un poliziotto accorre con un estintore per cercare di spegnere l'incendio. “Mio figlio ha appena finito il servizio militare e non trova lavoro, io e mia moglie siamo disoccupati e non abbiamo nemmeno il minimo necessario per vivere”. Aveva cercato di convincere la banca a non ritirare il mutuo senza successo. “Non hanno voluto nemmeno parlarmi, se tornassi indietro non rifarei quello che ho fatto forse, ma darei fuoco ai bancomat o ad altre strutture dell’istituto”.

Una delle tante immagini, dei frammenti di breaking news destinati a non sedimentarsi, evaporando lentamente nel mainstream informativo quotidiano. Quattro mesi dopo la Grecia è un paese completamente in ginocchio. Agghiaccianti i dati : un tasso di disoccupazione cresciuto dal 13,5 al 18,2 per cento, con metà dei giovani sotto i 34 anni e privi di occupazione e strutture pubbliche al collasso, mentre le istituzioni internazionali chiedono altri pacchetti di sacrifici per evitare il rischio bancarotta. In questo contesto il paese ellenico, fino all’anno scorso il paese europeo con il più basso tasso di suicidi, ha visto aumentarne la quantità del 22%, diventando così il paese con il più alto tasso di morti volontarie .

Problema nuovo? Diciamo di no. Il primo ad analizzarlo fu un signore barbuto dall'aria falsamente nobiliare, più di cento anni fa. Émile Durkheim, tra i padri di quella scienza che verrà poi chiamata sociologia, fu il primo a introdurre un concetto interessante. Lo studio viene pubblicato verso la fine dell’ottocento, quando ciò che verrà ribattezzato come “Seconda Rivoluzione industriale”, processo che aveva mutato progressivamente gran parte dell’economia e degli assetti sociali del Vecchio Continente, era ormai compiuto. Ricostruendo, a dire il vero in modo abbastanza positivistico, i fattori sociali che predispongono a un atto radicale come il suicidio, Durkheim introduce il concetto di “suicidio anomico”. Questa tipologia, tipica delle società industriali collega, secondo il sociologo francese, il tasso dei suicidi con il ciclo economico. Il numero delle persone che si tolgono volontariamente la vita aumenterebbe nei periodi di sovrabbondanza come in quelli di depressione economica. Glissiamo sul fenomeno in quanto tale, è forse più utile concentrarsi su altro. Il termine anomia ad esempio, parola complessa, dal significato criptico e quasi clinico. Anomia già, e cosa significa?

Tipica delle società a forte mutamento sociale e produttivo, per il nostro barbuto amico francese, l’anomia è determinata dall’assenza di norme sociali, di regole atte a orientare e contenere entro certi limiti appropriati il comportamento dell'individuo. Superando il primo scoglio di comprensione, si può facilmente intuire che non stiamo parlando solo di norme istituzionali, ma anche di codici culturali e narrazioni che sappiano congiungere il nostro vissuto individuale a quello di una collettività. L’anomia si configura come un distacco tra l’individuo e la società. Nella fase più acuta di questo stato l’esistenza stessa di una comunità perde completamente di significato. Non sento di appartenere a nulla, nulla mi appartiene.Una lezione vecchia più di un secolo che può fornire ancora suggestioni.

La società industriale, nella sua forma capitalistica, ha indubbiamente i suoi meriti. Al di là del miglioramento delle condizioni di vita (in occidente), è indubbio che questo assetto abbia portato anche a numerose conquiste in termini di libertà individuale. Eppure. Eppure non si può negare che questo sistema divori ferocemente i propri figli. Ciò è assai più evidente durante le crisi cicliche che lo contraddistinguono come quella che stiamo vivendo. Non credo che esistono altre precedenti forme di organizzazione sociale dove i giovani vengano visti come "un problema". E' possibile che la generazione dei ventenni e dei trentenni, che dovrebbe essere il fulcro produttivo della società si percepisca costantemente come un esubero in larga parte del mondo occidentale?



Credo che il lavoro sia molto di più di ciò che mi permette di vivere. Simbolicamente, in ogni società, il lavoro è il mezzo con il quale il singolo si relazione e arrichisce una collettività. La mia utilità sociale, la mia appartenenza a una comunità, si misura anche attraverso il mio lavoro. Non si producono solamente beni, si producano (e si consumano) anche significati. Che relazione potrò avere con la società quanto di lavoro non ce n'è? Quando le mie competenze non vengono minimamente prese in considerazione? Quando nell'ennesimo contratto atipico continuo a percepirmi come una pedina assolutamente intercambiabile? Qual è il progetto collettivo che sto contribuendo a creare quando passo un intero pomeriggio al telefono a cercare di vendere aspirapolveri a pensionati ? Io ipotizzo semplicemente che nella maggior parte di questi casi, il significato del termine "collettività" si ridimensioni fortemente per lasciare spazio a una profonda solitudine e allo sviluppo di un'individualità ipertrofica e talvolta ossessiva. Problemi non nuovi, mi si dirà. E' vero, nulla di nuovo sotto al sole. Ma credo che sia più duro accettare questa condizione senza il conforto di una comunità o di una prospettiva diversa. Con la scomparsa di belle favole come il "Sol dell'avvenire", o il "Regno dei cieli" se preferite, rimane la sopravvivenza, la lotta costante per rimanere in piedi, non molto altro.

Non si tratta di rimpiangere età dell'oro: non sono mai esistite. Non si tratta di appellarsi a utopie che hanno dimostrato tutti i loro limiti. Si tratta solo di liberarsi, come il Candido di Voltaire, dal dogma che nonostante il prezzo che si paga quotidianamente si "sta vivendo nel migliore dei mondi possibili". Perchè dopo anni di crisi, mi pare che la bancarotta non sia unicamente economica. C'è una bancarotta semantica di cui nessuno ci parla, nè ci parlerà. Perchè il collasso e la mancata elaborazione di significato comporta un prezzo. E, come ci insegna la crisi infinita del credito che stiamo vivendo, qualcuno prima o poi viene a chiedere indietro il conto. Quasi sempre.

sabato 17 dicembre 2011

La recessione

"Vedremo calzoni coi rattoppi; tramonti rossi su borghi vuoti di motori e pieni di giovani straccioni tornati da Torino o dalla Germania. I vecchi saranno padroni dei loro muretti come di poltrone di senatori; i bambini sapranno che la minestra è poca, e quanto vale un pezzo di pane.

La sera sarà nera come la fine del mondo, di notte si sentiranno solo i grilli o i tuoni; e forse, forse, qualche giovane (uno dei pochi giovani buoni tornati al nido) tirerà fuori un mandolino. L’aria saprà di stracci bagnati. Tutto sarà lontano. Treni e corriere passeranno di tanto in tanto come in un sonno.

(Fotografia Flickr/ http://www.flickr.com/photos/alinababafriend/)

Le città grandi come mondi saranno piene di gente che va a piedi, coi vestiti grigi e dentro gli occhi una domanda, una domanda che è,magari, di un po’ di soldi, di un piccolo aiuto, e invece è solo di amore. Gli antichi palazzi saranno come montagne di pietra, soli e chiusi, com’erano una volta.

Le piccole fabbriche sul più bello di un prato verde, nella curva di un fiume, nel cuore di un vecchio bosco di querce, crolleranno un poco per sera, muretto per muretto, lamiera per lamiera.

I banditi (i giovani tornati a casa dal mondo così diversi da come erano partiti) avranno i visi di una volta, coi capelli corti e gli occhi di loro madre, pieni del nero delle notti di luna - e saranno armati solo di un coltello.

Lo zoccolo del cavallo toccherà la terra, leggero come una farfalla, e ricorderà ciò che è stato, in silenzio, il mondo e ciò che sarà."

(Pier Paolo Pasolini )

venerdì 2 dicembre 2011

Porosità

Novembre 2010. Due passi vicino casa, una serata come tante. Luci giallastre e foschia sfumano i marciapiedi. Le macchine ti passano sfrecciando a fianco, stringi la sciarpa per ripararti dal freddo pungente. In testa scelte su cui meditare, nelle gambe voglia di camminare. Un’anziana sulla settantina si appoggia a un albero. Attorno buste della spesa, mucchi di cianfrusaglie che si spargono sul selciato. Poche persone in giro, ragazzi pronti per il venerdì sera, uomini che dai bar si dirigono verso casa. Il tempo di uno sguardo distratto e poi passano oltre. Faccio così anche io. Pochi passi e torno indietro. Ha gli occhi di un azzurro impenetrabile questa donna. Guarda dritto nei miei, ma è come se il suo sguardo mi scavalcasse. Le chiedo se si sente bene. Mi risponde che la devo aiutare. Non ha un posto dove andare. Chiedo se vuole che chiami qualcuno; elenco di tutto: polizia, ambulanza, centri caritas, 118. Prendo il telefono, lei mi afferra per il braccio e mi blocca. Mi indica i casermoni di cemento, che si alternano in successione sopra di noi, le antenne che si inarcano in quella chiazza di umidità luminosa, che concordiamo essere il cielo. “Non c’era nulla qui. Prati. C’erano prati. Poi hanno costruito tutto questo. Sai chi è stato? No, non è stata la mafia, sono stati i russi con il gas, non è stato nemmeno Berlusconi, è stato Putin”. Insisto per sapere se si sente bene, posso chiamare un’ambulanza se vuole. Ha una pessima cera, abiti sgualciti e occhi che sanno entrarti dentro come una miccia pronta a esplodere. “Se chiami mi troveranno. No, non devi chiamare nessuno. I soldi non li voglio, voglio solo che mi ascolti”. Fumiamo insieme qualche sigaretta. La gente che passa ci guarda sospettosa, ma tira via decisa. Mi racconta di una bambina che correva sulle strade sterrate di quel quartiere e che si feriva spesso, prima che gli impedissero di farlo. Di come suo marito fosse stato portato via dai russi e nascosto non si sa bene dove. Di quanto era buono il pane di Roma 40 anni fa, prima che lo inquinassero come hanno fatto con l’aria, con l’acqua, con le strade. Parliamo ancora un po’, poi cerco di divincolarmi. Non sono certo di sapere come aiutarla, né che lo voglia. La lascio qualche sigaretta e chiedo ai proprietari del bar di fronte se è il caso di chiamare il 118. “E’ sempre lì, non si può chiamare il 118 per la pazzia” è tutto quello che riescono a dirmi.



Novembre 2011. Non abiti più lì, ma ti ritrovi a passeggiare sulle stesse strade. Frammenti di verità che si spezzano, altri che si fanno largo. Pensi a questa enorme porosità. Ti chiedi se la sensibilità non sia in fondo nient’altro che fragilità. L’assenza di anticorpi fra se stessi e il mondo. Uno spazio in cui l’universale si arrende irrimediabilmente al particolare, all’irriducibile. Non sei sicuro che questo “irriducibile” possa essere rivestito di significati convenzionali. Ed è paradossale come hai saputo leggerlo in quella serena disperazione. In quegli occhi che non potevano più essere aiutati, perché erano troppi i significanti e i significati che li separavano dai tuoi. Paradossale come in questa ferita aperta tra te e il mondo risiedano le tue più profonde possibilità di creazione e di sgretolamento. Alzi gli occhi sui palazzi che sembrano rincorrersi fino alle colline in lontananza. Riesci malapena a scorgerle. “Putin. Gran figlio di puttana Putin”. Ed è tutto quello che riesci a dirti ancora una volta, tra i notturni in ritardo e i cinesi che chiudono il bar .