lunedì 19 marzo 2012

Liberi tutti

Qualche tempo fa, mi è capitato di imbattermi in un' illustrazione geniale. Nella vignetta un omino esultava e la didascalia recitava più o meno così: “Evviva. Sono disoccupato, da domani si torna a sognare”. Come scrivo spesso, non mi piacciono le beghe italiche e non mi curo troppo di politica, soprattutto di politica italiana. Credo che in parte abbia a che fare con l’istinto di autoconservazione, in parte con la consapevolezza che cercare soggetti e referenti credibili sia diventato, da troppi anni, un po’ come continuare a cercare del vino in una riunione di alcolisti anonimi . Nonostante tutto, da un po’ di mesi, o forse dalla celebre espressione “Il lavoro fisso che monotonia” di Monti, continuo a imbattermi, in post come questi . Tralasciando tutte le tiritere sulla modifica dell’articolo 18 e sulla (necessaria) riforma del mercato del lavoro, sono molto colpito da questo Paese che si rimette in moto e sfida apertamente l’indolenza delle sue stirpi. La scoperta del “Self made man”. Cento anni dopo. Magari proprio mentre quel modello si sgretola. Dettagli.

Mi colpisce soprattutto che molte di queste esortazioni arrivino da “sinistra”, generalmente accompagnate dalla retorica sulle potenzialità della rete (a cui credo) , dall’enfatizzazione delle capacità personali e da una lista di persone- meglio se under 30- che “ce l’ha fatta”.

Peccato che ci si trovi nel paese più corporativo d’Europa, in cui serve serve un patentino anche per potare i platani. Una nazione in cui la stragrande maggioranza dei "giovani" - la giovinezza ormai è uno stato dell'anima- non ha mai sperimentato l’ebbrezza nemmeno di un contratto a tempo determinato.



Peccato che non tutti siano nati per essere intraprendenti, istruiti e pronti a raccogliere le sfide. Una collettività non si costruisce solo con i bit e con le idee. Si costruisce anche (e soprattutto) con il sudore, con la fatica quotidiana e anonima, di tanti per cui la parola lavoro è un male necessario per sopravvivere, più paragonabile all'etimologia della parola francese “Travaille” che al suo corrispettivo italiano. Andate a parlare di “sfide” e di opportunità a un operaio metalmeccanico o a un dipendente di un’impresa edile. A un cinquantenne con famiglia a carico che non riesce a ricollocarsi nel mercato del lavoro. O a chi magari una famiglia la vorrebbe e si dibatte tra lavori precari in tre call center diversi. Magari a chi ha perso il lavoro, perché il padrone ha deciso che investire in Romania costa meno. Dettagli.

Il tutto viene poi agganciato all'idea di libertà. La libertà già. Da sempre un concetto rischioso. In quel bel libro che è Storia della libertà americana, Eric Foner, tratteggia un’evoluzione di questo concetto durante la storia statunitense. Durante l’ottocento, il termine “libertà”, serviva ad esempio a legittimare la volontà dei grandi latifondisti del sud degli States di possedere schiavi. In tempi più recenti si potrebbero sottolineare cose curiose come il terribile “Arbeit macht frei” dei campi di concentramento nazisti o il grottesco “Casa delle libertà” di berlusconiana memoria. Sono i primi tre esempi che mi vengono in mente. Nella fattispecie, io non vedo che tipo di “Libertà” sia quella di cui si sta parlando. La libertà di ripartire continuamente da zero? Di non avere mai un centro? Di inseguire continuamente il mercato e le opportunità? Leggittimo, ma perché questo modello dovrebbe essere valido per tutti? E perché non vale anche per il bengalese clandestino che mi pulisce il vetro e deve scappare quando vede una volante della polizia?

Credo insomma che la parola “libertà” sia un po’puttana, va maneggiata con cautela. Specie quando la si sgancia dal concetto di responsabilità individuale. Alcuni l'avevano formalizzato già un bel po' di tempo fa. Persone per cui un motto, oggi assai in voga, come “Think different” non era solo un bel copy per vendere prodotti informatici, ma una necessità. Una garanzia di integrità.