sabato 20 agosto 2011

Pavlov e la notte

Tutto parte da un campanello. A ogni trillo un cane (io immagino un bastardino) riceve un po’ di carne. Due, tre, quattro, forse anche cento volte. Poi il campanello suona di nuovo; niente carne questa volta, ma il cane abituato ad associare lo stimolo acustico al cibo, saliva pregustando il boccone. Sembra banale, è uno degli esperimenti chiave per la storia delle scienze sociali del ‘900. La scoperta di quello che passerà alla storia come “condizionamento operante” grazie al lavoro del fisiologo russo Ivan Pavlov. Quel campanello segna l’inizio di uno dei tanti “miti” del Secolo Breve: quello di poter influire anche sugli atteggiamenti e sui comportamenti umani attraverso l’accurata ripetizioni di stimoli ai quali dovrebbe far seguito una risposta condizionata. Per il filone di studio che si farà carico di questo paradigma, il comportamentismo, la mente umana non è nient’altro che una scatola nera inconoscibile (e il suo funzionamento viene considerato per molti versi irrilevante). Il Novecento, si sa, è stato il secolo delle masse; da un singolo individuo a una massa (a volte) il passo è breve. Sono queste teorie che influenzeranno altri modelli, come quello dell’”ago ipodermico”. In questo paradigma i messaggi comunicativi sarebbero in grado di colpire direttamente gli individui in modo diretto e immediato, modificandone opinioni e comportamenti, proprio come un proiettile. Non a caso la teoria è chiamata in inglese “Bullet Theory”. Pensateci, una larga massa di zombie controllati da pochi “architetti della volontà”, pochi Dottor Caligari da una parte e una coltre di individui ipnotizzati dall’altra. Come sono andate le cose? Sono andate che tra un uomo e un cane c’è (alle volte) differenza. Che tra la ricezione di un messaggio o l’esposizione a uno stimolo e la sua risposta ci sono molte variabili di tipo cognitivo, che rendono questa risposta per molti versi per imprevedibile. Ci sono la cultura, gli affetti, i valori condivisi, le relazioni sociali, il mio universo affettivo, la mia pancia piena o vuota, la mia discussione con mia madre e via dicendo. Nessuna bacchetta magica insomma.




Ho ripensato in questi giorni al cane di Pavlov, leggendo “La notte” di Elie Weisel. Il romanzo, la storia della deportazione del giovane protagonista che coincide con l’olocausto di un popolo (il popolo ebraico), è soprattutto il racconto di una perdita. La perdita di tutti i filtri cognitivi posti tra il processo di stimolo e quello di reazione. “La notte era completamente passata. La stella del mattino brillava in cielo. Anche io ero divenuto del tutto un altro uomo. Lo studente del Talmùd, il ragazzo che ero si erano consumati nelle fiamme. Restava solo una sembianza. Una fiamma nera si era introdotta nella mia anima e l’aveva divorata”. In un crescendo di orrori costanti, il protagonista scopre di essere nient’altro che un corpo freddoloso e sanguinante, una pancia vuota. Dopo ogni esecuzione descrive meccanicamente il pasto consumato, come se nulla significasse più qualcosa. Lo scenario è quello di figli contro padri, Kapò (ebrei) contro ebrei, forti contro deboli. L’unico motore dell’azione umana e la necessità, la risposta (sempre) condizionata a stimoli esterni ed interni”. “I lager sono i laboratori dove si sperimenta la trasformazione della natura umana” affermava Annah Arendt. Un esperimento destinato a espandersi su scala globale. Gli uomini dei campi di concentramento nazisti sono i sudditi ideali dei regimi totalitari perché del tutto isolati e privi di volontà. Come il cane di Pavlov al campanello segue la salivazione, così come a una serie di calci seguirebbe un’altra reazione condizionata, nessuno spazio per agire diversamente. Eppure. Eppure, anche nel romanzo avvengono piccoli miracoli. Come quando un’operaia francese rischia la sua incolumità per aiutare il piccolo protagonista. O come quando il violinista polacco, schiacciato dalla calca, non rinuncia a suonare e muore a fianco al suo violino: “Suonava un frammento di un concerto di Beethoven. Non avevo mai ascoltato suoni così puri. In un tale silenzio. […] Suonava la sua vita. Tutta la sua vita scivolava sulle corde. Le sue speranze perdute, il suo passato bruciato, il suo avvenire spento. Suonava quello che non avrebbe mai più suonato”. Sono piccoli lampi, preceduti da oscurità assoluta. Proprio per questo hanno la capacità di abbagliarti. I pezzi mancanti di un’equazione, la promessa di una strada diversa.



Quant’è difficile mantenere vivi i pezzi mancanti di questa equazione? Me lo chiedevo nei giorni scorsi osservando le notizie che provenivano riots inglesi. Viviamo tempi difficili, fatti di rabbia e frustrazioni. Tempi in cui i meccanismi della rappresentatività democratica sono quantomeno offuscati su scala globale. Eppure quello a cui si è assistito, è un sintomo di qualcosa che può largamente diffondersi, che non riesco a giustificare. Mi hanno in particolare colpito i negozi assaltati con il semplice scopo di rubare laptop, I phone, magliette di squadre di calcio e via dicendo. Amici residenti a Londra, mi raccontavano di intere aree in mano ad adolescenti e ventenni ubriachi, che si aggiravano con l'unico scopo di razziare e predare il più possibile. Tra le tante analisi, ho condiviso in particolare questa di Bauman che definisce i riots come rivolte di consumatori deprivati ed esclusi dal mercato, o questa di Adriano Sofri, che accosta il Lumpenproletariat di marxiana memoria agli insorti.

Non sono buonista, credo che ci siano circostanze in cui porgere l’altra guancia è semplicemente idiota. Ma il punto è che ho letto questi avvenimenti come il proseguimento di un modello di pensiero diffuso e dominante: il consumo come liturgia identitaria, l’irresponsabilità diffusa, l’ideologia “dell’arraffa quanto più puoi, prima che non sia più possibile”. In linea di principio, sono gli stessi meccanismi che possono spingere a girare con un SUV sfrecciando in pieno centro storico o a sfruttare lavoratori nelle aree del terzo mondo. Nessun equazione da smentire, solo l’ennesimo tornaconto del meccanismo stimolo – reazione (consumo). La salivazione come unico modello di pensiero ed azione. L’erosione di certezze, ricchezza e benessere diffuso, può sviluppare diffusamente risposte di questo tipo. Quante persone sono prigioniere di questa equazione? Quante confondono il trillo di Pavlov con il canto delle sirene? In quanti hanno sviluppato in questi anni modelli cognitivi per opporsi ai condizionamenti dell'industria culturale?

Ho l’immagine del piccolo violinista di Varsavia che suona Beethoven, pur nella calca che lo uccide. E’ il suo modo di sfuggire alla tirannia di un meccanismo condizionato. E oggi?. Oggi la fiaba che ci hanno cucito addosso, tarda giungere al lieto fine. Le molliche di pane sono terminate, Pollicino non torna più a casa. E’ fin troppo facile smarrirsi nella notte. A noi, solamente a noi, il compito (e la difficoltà) di cercare un altro sentiero. Uscire dall’indifferenziato e riattribuire cause, effetti e responsabilità. Ricreare gerarchie di priorità. Tornare a "suonare il nostro violino". Non è facile, soprattutto quando si prova rabbia. Ma è forse l’unico modo per opporsi al trillo di un campanello, all’ostinata tirannia delle nostre ghiandole salivari

lunedì 1 agosto 2011

A largo

La luce delle scale dell'albergo di fronte, il mare invisibile come un sintomo, lo sai, è da lì che filtra la tua estate. Anche adesso che l'estate non la senti, anche se sei lontano. Se stringi le dita ti chiedi perchè ti sia sempre piaciuto l'odore che c'è dopo un acquazzone o il nuotare a sera nel tuo mare fino a largo e startene lì a guardare il mondo svanire. C'è un tempo in cui ogni sera d'estate è una promessa. A te piaceva osservarla da lontano accendersi piano la sera. L'utopia inquieta di tracciare un solco, ritrovarti in altri sguardi, altre bocche, altre parole. La stupida convinzione che non sia tutto destinato a svanire intorno. La sensazione che ci sia qualcosa intrappolato lì fuori, qualcosa che può parlare solo a te.



Non sei più lì, ma in un quartiere romano deserto. Anche se lo fossi non proveresti le stesse cose. Ti affacci e c'è solo una radio che va. I quattro accordi di Karma Police. Le macchine che sfumano via lontano. Quando cessano, ti accorgi di aver perso parecchie cose per vedere ancora quelle sere d'estate con gli stessi occhi. Ti racconti che è un processo di sottrazione necessario per arrivare a te. O forse anche questa è l'ennesima giustificazione per dormire meglio. Allora pensi che se fossi lì a largo percepiresti che lo starsene lì a galla probabilmente non ha senso. Ma che forse il tuo essere uomo consiste solo in questo: non arrenderti all'ineluttabile. Altre mani, altre braccia hanno fatto sì che stessi lì ad aspettare quella sera. Conta questo, qualsiasi sia la fatica, qualsiasi sia il prezzo. Semplicemente perchè "Così vanno le cose, così devono andare" come diceva una vecchia canzone. Esci fuori e la notte d'estate è quella che è sempre stata, un tappeto sporco su cui camminare a piedi scalzi, un mare calmo infestato di sirene. Alzi gli occhi in alto, poi si spegne anche la radio e ti accorgi di essere solo. Non ti dispiace esserlo. Come se la riva fosse lì in fondo, ma non ci fosse nessuna fretta. Ogni bracciata nella sera una ferita che il mare ricuce istantaneamente. Non hai tempo di voltarti a osservarne la scia. Si vive sempre in una terra che non ci appartiene. Si vive "estirpando la gioia ai giorni futuri". Ma c'è qualcosa di vivo anche nel tuo respiro. Qualcosa che vuoi afferrare. Qualcosa che forse afferrerai, un giorno.