lunedì 30 agosto 2010

Le canzoni di ieri (istupiditi appunti di viaggio, insonnia e nostalgia)

Quando parti ci sei solo tu, aria assente e occhi insonni, a sbirciare gli altri in un aeroporto affollato. Tra troppe sigarette e voci uguali si insinuano parole scorticate, dissonanze che condiranno a lungo i tuoi giorni.

Arrivi e c’è un gran vento. Un vento freddo che sembra sradicare i tuoi pensieri e disperderli su una pianura sconosciuta.
La città che ti accoglie è un labirinto di simmetria che non sai percorrere.Continui a smarrirti su strade troppo uguali prima di rinunciare alla necessità di un ordine. Ti sforzi di ricordare i nomi delle vie, non sai impararli.

Ogni viso, ogni voce, è una mosca annegata nello zucchero, la prima riga di un racconto abbandonato su un quaderno a quadri, un seme sepolto in terra nell’inverno più gelido che ricordi. Se chiudessi gli occhi rimarrebbero solo i tram della notte e il tuo inchiostro, nascosto al di là del vetro. Se chiudessi veramente gli occhi, percepiresti solo le chiavi premere contro la tua gamba destra e la porta di casa socchiusa, come un piccolo cerotto steso su una ferita assai più larga dei tuoi passi.

Hai tasche piene di tabacco, pensieri appiccicosi di wodka, la bocca impastata di discorsi che non comprenderai più. Passi le notti bevendo; sfiori i fianchi di donne che sanno sorriderti e bevi ancora.

Mattino di dicembre, neve ammucchiata agli angoli delle vie, sciarpe dimenticate su divani vuoti, la gente muore tra giornali e caffè: l’odore di pane sfornato ti conduce a casa. Il tempo è solo un illusione che scava le guance dei netturbini, il letto l’unico ad indovinare il tuo contorno.



La ragazza che ti scippa via ha occhi così fragili da divorare distanze. Tu labbra troppo sporche di vocali, facili erezioni, dita inesperte, una calligrafia che non sai imparare.

Scotti la tua lingua col del tè bollente, rovesci birra e zucchero sul tavolo, inciampi, sorridi e le sussurri “Lì venne Sally con un tamburello”.
La ragazza che ti scippa via ha mani che tremano. Le prendi nelle tue in un caffè affollato e non sai se lì fuori è notte o giorno. Le stringi, le fermi guardandola negli occhi e qualcosa si arresta per un istante anche in te. Quando lei appoggia la sua testa sulla tua spalla, attorno hai una piazza dai palazzi color primavera, ed è già ora di andar via.

Corri sempre con lo stomaco in subbuglio, con la fame che morde ogni tua vena. I gabbiani volano sopra la tua testa, atterrano su tetti di case sempre uguali. Ti scrutano pigri e riprendono il volo sopra i tuoi passi incerti

Quando ti fermi hai davanti un parco sciacquato da un sole inusuale. Senza accorgerti rimani a guardare un vecchio che cammina piano. Nelle mani ha fiori celesti come gli occhi. La ragazza lo chiama "Light eyes". Ti vengono in mente quelli di tuo nonno in un lungomare con tutti i sintomi dell’estate, le tue scarpe slacciate nell’ombra, le sue ciabatte che strusciano sull’asfalto. Ti chiedi perché invecchiando gli occhi diventino più limpidi. Ti chiedi se saprai mai leggere l’alfabeto di quei passi.

Le tue gambe si accorciano, poi ricominciano a divorare la strada.

Quando esci dalla città ti sembra di aver oltrepassato gli argini che ti legano al presente. La storia è un nodo che ti si pianta in gola e attende le tue risposte e quelle di chi ti è accanto. Non ne trovi alcuna, ma le domande ti resteranno appuntate per sempre nel sangue. Rimani a fissare foglie cadere su tombe dimenticate e macchiare il cielo, solo quando le senti crepitare sotto le scarpe ti accorgi di esser vivo.

Le città inquiete non ti attendono. Non lo faranno mai. Tu le sorprendi in piena notte, le tieni in piedi con risate sguaiate e discorsi irrequieti che straripano attorno: quando alzi gli occhi è sempre giorno. E c’è che parli sempre troppo, ma è solo la pressione del sangue ad avvicinarti agli altri.

Dormi su treni cigolanti e letti sfatti. Dormi su tappeti e vecchi divani, ma rifletti chiaramente tutti i tuoi sogni e tutti i tuoi incubi sulla superficie lucente del lavandino.
Se ti sporgi senti l’alito dolce e sensuale della città puttana che ti respira contro. Ami e odi la sua lingua incomprensibile, i suoi uomini dalle spalle larghe, le sue donne dagli occhi d’angelo, l’odore d’alcool e vomito nel livido dell’alba, il tuo cappotto inzuppato di neve negli autobus affollati.
La scopri silenziosa un mattino e ti fai cullare dai suoi muri screpolati, senza occhi da cercare stavolta, senza più sidro da sputar via. Rimandi più volte la partenza e hai sempre meno soldi in tasca.

Poi saluti la ragazza davanti a un sandwich freddo. Segui con lo sguardo le sue gambe e i suoi capelli tiepidi nel primo sole di marzo. La accompagni sulla solita strada. Fiori bianchi sbocciano sugli alberi attorno alla stazione, ed è l’ultima cosa che intuisci: quando appoggi le tue labbra per l’ultimo volta sulle sue il tuo corpo svanisce. E che ti sono sempre stati sul cazzo i film sentimentali di seconda visione. E’ tutto quello che riesci a balbettare. Il treno si allontana e senti che non scorderai mai la tua mano sul suo sesso. Avrai tempo per cercare un senso. Non ne troverai alcuno.

Quando riparti sei solo di nuovo, come il giorno in cui sei arrivato. Hai uno zaino più leggero e un trolley sporco che non scivola sull’asfalto. Ora conosci ogni strada e cerchi di imprimerla nei tuoi occhi per ripercorrerla di nascosto, quando gli altri non potranno più vedere cosa si nasconde al di là. Arrivi in stazione all’ultimo minuto. Molti di quei visi che hai rincorso per mesi sono lì ad aspettarti. Ciascuno ti augura a suo modo “buon viaggio” e “buona fortuna”, perché quel treno non ti riporterà più a casa.

Quando riparti hai il solletico sul petto, come quando da bambino viaggiavi a lungo a fianco al mare. Il labirinto che hai amato e combattuto per mesi svanisce e si dissolve verso un punto che non riesci a intuire.



Al ritorno le tue parole sono confuse, il sole ti nasconde la fine della via. Tra la folla noti un vecchio vagabondo che cammina alla metà della velocità degli altri passanti. In bocca ha una cicca ormai spenta; alle sue spalle la strada è più nitida.

Il caffè che ordini è sicuramente meno acquoso dei precedenti. Non hai nulla davanti, solo i tuoi occhi che ti spiano da uno specchio opaco. Ti domandi dove può andare un vecchio con i fiori celesti come gli occhi in una domenica d’ottobre di Varsavia. Pensi alla distanza che ti separa dal vagabondo lì fuori. Quando esci,lui non c’è più.

Un punto fra rette che si intersecano, una pietrina fosforescente in un mosaico di cui non fai parte, è il tuo autoritratto. Nello zaino hai un libro con caratteri che smetterai di voler decifrare. Sulle mani dei tagli, invisibili e sottili, come le canzoni di ieri.

Allora ti chiedi quali punti i tuoi piedi hanno dovuto unire per condurti fino a lì, davanti a quel domino senza nome, con piedi formicolanti e nessun’altra vita con la quale poterti fidanzare, se non la tua.

Allora ti chiedi quali coordinate ti hanno portato davanti a un semaforo rotto, con le scarpe che cercano la strada e i capelli che cadono come un velo, a nascondere gli occhi più limpidi che hai mai avuto.

mercoledì 18 agosto 2010

Wikileaks e gli universi che cadono a pezzi


Hai pochi spicci per chiamare. Sei in una cabina telefonica, quella attorno è la tua città. Piove forte e le gocce si infrangono a pochi centimetri dal tuo sguardo. Davanti hai palazzi uguali. Se aguzzi lo sguardo scoprirai che si stanno screpolano pian piano. Il mondo si è probabilmente già frantumato, la realtà è forse solo una tua illusione. Se questo pensiero ti sfiora, un brivido scende lungo la tua spina dorsale e si infrange ai fianchi. Frughi nervosamente nelle tasche per tastare le ultime monete. Componi il numero. Se quella che senti dall’altra parte è la tua voce, sei probabilmente in un romanzo di Philip Dick.

Si dice che le regole (e quindi anche canoni e generi) esistano solo per le eccezioni. Dopo Dick, parlare di “fantascienza” è sempre stato piuttosto riduttivo. Non mi riferisco del passaggio (scontato) da una visione “positivista” a una visione “critica” della tecnologia. Parlo della rivoluzione assoluta dell’idea di “controllo sociale” presente nelle sue opere. Nei romanzi dello scrittore californiano non c’è più nessuna realtà da controllare, per il semplice fatto che la realtà è già esplosa, ed è semplicemente incomprensibile. Il detonatore che l’ha frantumata è l’informazione.

Il potere si fonda sulla creazione di universi informativi illusori, ai quali non è conveniente reagire. Quelli che lo fanno possono solamente creare altre personali cosmogonie destinate a cadere a pezzi, come ricordato in un bel saggio di Francesca Rispoli. Tutti i personaggi di Dick si muovono in un illusione così forte e così invisibilmente coercitiva da sembrare vera. La cifra stilistica è l’isolamento, quella narrativa l’ambiguità, il dubbio (spesso) l’unica forma di poesia praticabile. Realtà e rappresentazione sono diventate la stessa cosa. La repressione non serve più. Basta rendere la realtà incomprensibile per inibire ogni azione o reazione dei personaggi. Il meccanismo a livello sociale è più o meno questo: “Non so chi colpire, perciò non posso agire” come recita una canzone degli Afterhours. Gran parte del cinema contemporaneo considerato di fantascienza (ivi compresi classici come Matrix) senza le opere di Philip Dick non sarebbero nemmeno concepibili.



Fortunatamente non sono in una cabina periferica periferica con pochi spicci in tasca (anche se ho perso il telefono proprio oggi) e attorno non sta piovendo, perché parlare di Dick allora? Credo che le distopie non arrivino mai (fortunatamente) a realizzarsi concretamente. Non abbiamo (più o meno) mai vissuto in 1984 , ma Orwell, come Huxley e come tutti i grandi maestri del genere hanno indicato le coordinate di una possibile deriva, estrapolando ed estremizzando degli elementi costitutivi della nostra realtà, componenti spesso "avvertiti" come positivi o addirittura fondanti per i parametri culturali in cui siamo immersi. Bersaglio di molte distopie del secolo scorso sono state le utopie positiviste di sviluppo e progresso tecnologico e sociale.

Il mito della società della conoscenza è quello dell’ ”Informazione”. I processi informativi , l’interconnessione globale, la libera possibilità di espressione di tutti gli utenti renderebbero più “trasparente”, più “democratica”, in poche parole più “libera”, la nostra società.

Prendete l’esempio di Wikileaks. Wikileaks (da leak, "fuga di notizie" in inglese) è un'organizzazione internazionale che riceve documenti coperti da segreto e poi li mette in rete sul proprio sito web. Wikileaks riceve in genere documenti di carattere governativo o aziendale, da parte di fonti coperte dall'anonimato. L'organizzazione si occupa di verificare l'autenticità del materiale e poi lo pubblica tramite i propri server dislocati in Belgio e Svezia (due Paesi con leggi che proteggono tale attività), preservando l'anonimato degli informatori e di tutti coloro che sono implicati nella "fuga di notizie". (fonte Wikipedia).

L’organizzazione è divenuta famosa ultimamente per la pubblicazione di importanti documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, che ha rilevato diversi massacri delle truppe americane ai danni di popolazione civile inerme e una verità tanto temuta, quanto ormai quasi ovvia: la "vittoria USA" è fortemente compromessa.

Dalle lodi al forte impulso di democratizzazione del mezzo ai paragoni con la grottesca situazione italiana, le problematiche derivanti dall0utilizzo del nuovo “wiki” sembrano provenire solo da posizioni reazionarie e conservatrici, con argomentazioni francamente ridicole (almeno per chi scrive).

Col nuovo mezzo sarebbe insomma più difficile occultare delle verità fondamentali ai cittadini e all’opinione pubblica, costringendo gli stati, quanto le grandi corporation (tesi interessante sviluppata organicamente per l'universo pubblicitario da Paolo Iabichino in “Invertising”) a fare i conti con i propri elettori o i propri utenti.

In larga parte questo è ancora vero, specialmente nel paese del surrealismo mediatico-dittatoriale per antonomasia.Ma siamo sicuri che il potere si baserà sulla negazione dell’accesso alla conoscenza ancora a lungo? Sulla diffusione gerarchica di qualche dogmatico motto come “La guerra è pace”? Le distopie di Philip Dick tendono a smentire questa rotta. Se fossi un tiranno invisibile di un suo romanzo desiderei censurare una risorsa informativa presente su Wikileaks o altri siti? Non credo.

Penso che proverei a infiltrarmi all’interno di quel sistema piuttosto, a veicolare informazioni alterate o completamente false o a usare ogni mezzo possibile per depistare chi è dall’altra parte del mio terminale. Proverei poi a frantumare il concetto di “verità”, emettendo una sorgente continua di notizie contraddittorie che tendono a smentirsi reciprocamente, fino a suscitare una forte “ambiguità” e un forte senso di relativismo in chi voglio controllare. In Italia penso che abbiamo avuto un discreto assaggio di cosa intendo . Il potere nella “società liquida” non ha bisogno dei vecchi sistemi repressivi e carcerari. Basta inibire i processi di reazione . E queste tecniche hanno una radice più immateriale che materiale. La tecnologia in quanto tale non serve a rendere la società nè più libera, nè più trasparente, ma a costringere a nuove strategie di sopravvivenza e proliferazione tanto i controllori, quanto i "controllati".

Tutto questo non può non disorientare.

E allora? Dove mi trovo? Sicuramente non ti trovi in un romanzo di Philip Dick e come già ribadito non c’è nessuna cabina telefonica davanti ai tuoi occhi. Tra le tue dita c’è uno strumento che può virtualmente raggiungere qualunque parte del globo o gran parte degli individui che fanno parte di questa parte del mondo che ti ostini a chiamare “Occidente”. Il mondo non si è ancora frantumato e ne hai bisogno come di acqua. Il potenziale libertario degli strumenti che hai di fronte è sicuramente rilevante. Ma devi stare attento a non perderti nella pioggia informativa che ti si sta rovesciando addosso. Nessun nerd ti insegnerà a farlo. Decidere cosa bere, evitando di affogare, sarà probabilmente sempre più difficile. Dipenderà da questo, gran parte del nostro futuro anteriore .