mercoledì 29 giugno 2011

martedì 14 giugno 2011

Cronaca dell'alluvione #1

Fu durante il periodo dell'alluvione che non ci facemmo più caso. Succedeva che le parole si sovrapponessero fino a emanciparsi definitivamente dalla loro funzione. Qualche tempo prima, ad esempio, era avvenuto che il termine “guerra” potesse essere abbellito di aggettivi per designare la parola “pace”, che la parola “serenità”, assumesse il significato di “inquietudine” e così via. Ma questi erano solo lontani retaggi orwelliani. Il più delle volte le parole sfuggivano semplicemente dai loro legittimi proprietari, allontanandosi dai significati senza centrarli più. Qualcuno imputava la colpa ai significati. Altri si scagliavano contro la produzione esponenziale di frasi, parole, narrazioni, slogan. Non ci è dato sapere chi avesse ragione. Qualcun altro aveva capito il gioco e le usava abilmente come armi da guerra, pronte a stordire, distogliere, distrarre. La produzione di “altre realtà” e “verità” divenne presto anche il nostro passatempo preferito. Fra queste realtà ci aggiravamo eccitati e confusi . Altri obiettavano che presto sarebbe stato difficile dimostrare qualsiasi cosa. Qualcuno affermava che la forma di controllo più raffinata era quella del labirinto. Chi è dentro vuole soltanto uscirne e per farlo deve procurarsi informazioni. Ma cosa fare quando è lo stesso accumulo di informazione a creare il labirinto?


Emersero due nuove figure antropologiche. I primi li sorprendevi a scrutare segni nel cielo e nella rete, scavare tra le pieghe di un medioevo illusorio, tra coordinate bancarie e lignaggi di sangue. Si nutrivano di qualsiasi frammento di informazione, fino a farlo diventare segno, rivelazione di una verità invisibile ai più. Perno centrale del loro pensiero, l’esistenza di un ordine gerarchico, di un cabina di comando che predisponeva e reggeva il labirinto. Ne derivava un’attività intensa, imperniata sulla produzione di verità e sospetti, che portava ad ispessire ulteriormente le mura che si prefiggevano di abbattere. I secondi non erano invece una categoria nuova, vantando una tradizione filosofica di tutto rispetto. Il cinico dei tempi dell’alluvione era però anch’esso figlio del labirinto. Ammettendo di non poter giungere a nessuna verità, questa categoria preferiva rintanarsi nel sarcasmo. La sua attività primaria era la decostruzione intelligente e sistematica di verità, certezze, intenzioni e slanci. Anche il cinico contribuiva a solidificare le mura del labirinto. Noi continuavamo a camminare, senza nessuna scelta. Eravamo drogati di pagine strappate, insegne arruginite, immagini scrostate. Invisibili, alle nostre spalle, i cani addormentati nell’estate, le ginocchia sbucciate dei ragazzi, le ragazze con i vestiti a fiori, i racconti dei padri, l’odore di sterco e di primavera, e i mezzi che qualche volta si trasformano in fini. A volte ci capitava di voltarci, di tendere una mano, portare a centro l’unica parola giusta che ci era concesso scovare, concedere gli occhi, la mente e i giudizi al silenzio. Con ingenuità forse, ma senza nessuna superficialità. Durava appena un istante. Ma se alzavamo gli occhi non c’era nulla attorno. Solo un sentiero non tracciato che reclamava i nostri passi. Prima dell’alluvione si sarebbe chiamata ancora “libertà”.

sabato 11 giugno 2011

Due o tre cose che so di lei

C’è una linea sottile che attraversa ogni giovinezza. Un punto dove capiamo di esserci allontanati per sempre dal bagnasciuga, tra la costa ormai lontana e le correnti che vorrebbero spingerci a largo. C’è una sera di lampioni sparsi, quando tornando a casa, ci sembra di non poter sopravvivere, senza aver delineato meglio il contorno e l’ombra delle cose. Non c’è giovinezza senza la scoperta, anche inconscia, di una basilare verità: il mondo è superiore alla nostra capacità di racchiuderlo. E’l’inconsapevolezza a suggerircelo, quella di noi stessi innanzitutto. C’è un istante nella nostra vita, quando i confini tra noi e il mondo sono labili. Sono “Le quiete stanze e le vie intorno” a chiamarci. La virtù di questo richiamo è la bellezza, il prezzo la vulnerabilità. Ci si ritrova attorniati dalle sirene come Ulisse. Ognuna ci racconta, una favola diversa su noi stessi, ognuna l’arcangelo di una diversa possibilità. C’è qualcosa di estremamente vitale e autodistruttivo in questo. In una delle sue poesie più belle, Dylan Thomas l’ha sintetizzato in questi versi: “La forza che attraverso il calamo sospinge il fiore/ E’ quella che sospinge la mia verde età/ Quella che spacca le radici degli alberi/ E’ la mia distruttrice”.



Io questa forza l’ho ritrovata negli scatti di Francesca Woodman, in una piccola mostra vista recentemente a Roma. E’ un universo enigmatico quello di Francesca, perché enigmatica è la ricerca adolescenziale e giovanile di un volto da mostrare al mondo e soprattutto a sè stessi. Nei suoi scatti è spesso presente il suo corpo, raramente il suo viso. Un corpo sensuale, simbolico, pronto a farsi significante e metafora di una “realtà altra”, ma quasi mai riconoscibile. La realtà sognata dalla Woodman è del tutto priva di denotazione. Sono strati di luce pronti a stratificarsi, a farsi rivelazione, epifania di traiettorie interiori e possibilità. Scatti che mostrano una fiducia sincera nei confronti dell’immagine, proprio nel periodo in cui il loro processo di significazione entra definitivamente in crisi. Ogni fotografia è un tentativo, per dirla con le parole di Montale, di rintracciare “Il punto morto del mondo, l'anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità”. C’è qualcosa di terribilmente giovane e grandioso in questo. Una vulnerabilità che diventa apertura, e che abbatte ogni filtro tra l’artista e il mondo. Uno iato sottile tra consapevolezza e inconsapevolezza, interiorità e esteriorità.
Da questo iato proviene la luce che dà forma al suo universo, da qui, la sua inquieta grandezza.

Qui trovate un mio articolo sulla mostra. Qui la fotogalleria.