lunedì 25 ottobre 2010

Quello che non

La politica italiana mi annoia. Qualche tempo fa mi faceva incazzare, ora prevale lo sbadiglio. La trovo sempre più somigliante alla mitologia che alla “politica” in senso stretto. Un universo mitologico pacchiano, intriso di geriatria e decolté. A volte questo universo viene attraversato da qualche scossa tellurica. Queste scosse sono le uniche essenze che ci porgono al di fuori dell’autoreferenzialità, che ci ricordano che questo serial per casalinghe frustrate e tossicodipendenti mediatici è immerso in un palinsesto ben più grande, che non solo la scavalca,ma che se ne frega anche delle sue dinamiche interne. La scossa di ieri sera si chiamava Marchionne. Il presidente della Fiat ha dichiarato candidamente a un talk show, che “nessuno dei profitti della fiat proviene dall’Italia” e che anzi l’azienda di Torino farebbe molti più incassi se la smettesse di investire in Italia. E' indubbiamente un espressione infelice, o meno prosaicamente, una frase del cazzo. Equivale a dire a migliaia di dipendenti: voi siete assolutamente inutili, lo sapete? Apprezzo però questo: nel Paese del "dico e non dico" e delle pajate riparatrici, è uno dei pochi a parlare chiaro. E a ricordare una cosa fondamentale: che i contrasti capitale lavoro non sono terminati con il secolo scorso e che rimangono un settore critico dello scenario socio-economico.



Come parla Marchionne? Parla semplicemente come il presidente di una multinazionale e i direttori di multinazionali non si possono permettere troppe licenze poetiche. Sta giocando una partita che ha le sue regole, o si applicano queste regole,o la partita si perde. Ci vogliamo concentrare sulla regole o sul singolo giocatore? Giudicate dalle reazioni: “Parla come uno straniero” (Epifani), “Non diventiamo cinesi” (Bersani), “E’ indegno” (Di Pietro): nessuno a sinistra (insomma quell’area che dovrebbe assomigliargli, diciamo) ha il coraggio di arrivare al nocciolo del problema. Il più a sinistra di tutti è come al solito Fini, che si azzarda a ricordare gli incentivi statali ricevuti dalla FiAT in tutti questi anni. Troppa grazia.

Io credo ci siano due livelli di lettura. Il primo è puramente pragmatico. Non capisco nulla di politica economica e industriale, ma se siamo al sessantesimo (e passa) posto della classifica per la competitività industriale e i maggiori paesi europei figurano ai primi dieci posti, qualche problemino lo abbiamo. Non sono nelle condizioni di parlare di questo livello di lettura, perché primo non mi va di parlare di cose che non conosco, in seconda battuta perché è quello che mi interessa di meno.

Il secondo livello dovrebbe essere più sistemico. Penso che sia stupido additare al “cattivo” se non si analizza seriamente lo scenario. Qual è lo scenario? Quello di un’economia di rapina, di capitali spostati in un click, capaci di deprimere e rovinare vite e nazioni, di dinamiche che non differiscono poi molto da quelle delle grandi organizzazioni criminali. Di una delocalizzazione che obbliga le aziende ad abbassare salari e diritti per abbattere costi e aumentare la produttività. Banalmente lo scenario è quello di lavorare sempre più ore al giorno per produrre accessori spesso inutili, e ottenere un salario capace di acquistare la stessa paccottiglia che fa sì che il sistema che mi tiene legato davanti a una pressa meccanica svariate ore al giorno si autoriproduca. Di un welfare che non esiste più per larga parte degli abitanti di questo paese e dell’intero occidente. Non si tratta di vagheggiare di utopici ritorni all'età della pietra o di inesistenti "età perdute". Si tratterebbe solo di ricominciare a ragionare.

Perché il mercato dell’auto è in crisi? Faccio un esempio. Mio padre a 30 anni aveva già comprato la sua prima auto (e se per questo aveva anche una casa e un figlio a carico). Quanti ragazzi a 30 anni possono permettersi di comprare un auto? Non fa nulla, investiamo nei mercati emergenti, mi si dirà. Siamo sicuri che, anche con un netto miglioramento della tecnologia in chiave ecologica, il pianeta possa sopportare il consumismo di due nuove miliardi di persone senza scoppiare? Eppure abbiamo cominciato noi, o no?




Qualcuno pensa alla globalizzazione come a uno stretto di comando, gestito da un pugno di staricchi e folli ammiragli. Sarebbe questo il “Nuovo ordine mondiale”. Probabilmente è così. Non lo so. Io sono qui a pensare che sarebbe bello pensare a una prospettiva diversa. A un tempo ritrovato, a una conflittualità rinnovata, alla fine di quell’utopia che qualcuno qualche tempo fa chiamava “mito dello sviluppo” o del “falso progresso”, a una nuova gerarchia di valori e di riferimenti , a una nuova idea di socialità, a ricominciare a creare "cultura"(in senso lato) al di fuori dei salotti, insomma, a un orizzonte che sia diverso dal muro dove ci stiamo per schiantare. Dov'è questo dibattito?

Ci penso un po’, ma basterebbero cinque minuti di televisione a farmi sentire un imbecille, o nel più fortunato dei casi un ingenuo radical chic. Mezzi senza più fini, fine della progettualità, la “ragion pratica” che prende la “ragion pura" per i capelli fino a farla rantolare dentro una vasca d’acqua; accendo la tv e hanno tutti una gran voglia di parlare. Mi connetto con qualche social network: idem. Quante di queste parole hanno veramente senso nella vostra giornata? Ho provato a seguirlo un po’ l’ "Affaire Marchionne”, ma prevedo solo altro brusio, fino al prossimo sbadiglio. Esco a fumare una sigaretta. 'Notte.

domenica 17 ottobre 2010

Talking about my generation

Non mi piace parlare della mia generazione. Non mi piacciono più i film generazionali, la gente che ci ricorda “quanto siamo sfortunati”, i discorsi sull’Italia, sul rimanere e sull’andare all’estero e così via. Fatte queste premesse, provo a mettere giù qualche riflessione che mi rimbalza in mente da un pò.

Ironia, disillusione e altri demoni

Credo che se abbiamo una colpa (e per noi, intendo tutti quelli che oscillano in quella fascia di età che va pressappoco fra i 20 e i 35 anni), questa colpa sia stata talvolta quella di uniformarci alle immagini con le quali ci hanno rappresentato. Fotogrammi di ironica e sottile inconcludenza.
Molti degli eroi della cultura pop di questi anni sono stati antieroi. Personaggi che vagavano in una realtà che si andava via via spogliando di significato e futuro. L’unica forma di reazione di questi personaggi a questa condizione era quello di opporre una strenua forma di ironia. Qual’era il senso di questa ironia? Credo che sia meglio partire dalle premesse. Quelle fondamentali credo fossero presso a poco queste: so di non avere futuro, che non vivo nel migliore dei mondi possibili, e se c’era un Palazzo d’Inverno l’hanno già assaltato. Hanno provato a sconfiggere i vecchi zar e cosa ne è venuto fuori? Che il Palazzo d’inverno è ancora in piedi, che pure quando qualcuno dei vecchi “padroni del vapore” è stato sconfitto, i rivoluzionari sono corsi a ricoprirsi delle antiche vesti degli “oppressori”. Poi? Poi sono stati eretti altri steccati. Tutti si sono riconosciuti come liberi e indipendenti, cosa se ne è cavato? Maggiore consapevolezza? No, probabilmente abbiamo assistito alla prima generazione senza una prospettiva che travalicasse la propria esistenza. All’incapacità di portare avanti modelli di convivenza, progetti di ingegneria sociale, in alcuni casi, anche famiglie ed affetti. Molti dei nostri padri (non i miei, e sicuramente non tutti) sono stati i primi a far proprio il motto “Il mondo inizia e finisce con me”. Le conseguenze politiche, economiche e ambientali di questo atteggiamento sono sotto gli occhi di tutti. Sia chiaro, non si stanno facendo processi. Le attenuanti sono molte e le conquiste reali. Quella che ci precede è stata la prima generazione che ha dovuto fare i conti con la cultura consumistica, la prima nelle quali la donna è stata considerata qualcosa in più di un semplice oggetto domestico, la prima in cui minoranze oppresse da secoli hanno avuto voce, solo per fare qualche esempio. Ma chi, come me, è arrivato dopo, e si è trovato a confrontarsi con quella generazione sui banchi di scuola, a lavoro e nei circuiti culturali, ha sviluppato quasi sempre un senso di profonda disillusione.



Perché allora l’ironia come cifra stilistica degli “anni zero”? Innanzitutto come forma di autodifesa. Non prendo sul serio quello che mi circonda, perché so che non posso realmente influire sul reale. Ho già assistito alla presa della Bastiglia e del Palazzo d'Inverno, so com’è andata a finire. Ha senso tentare un altro assalto? Probabilmente no. Nella cultura pop, questo senso di impotenza è ben scandito dal dolore che traboccava dal grunge dei primi anni ’90. L’ironia è il travestimento di questo senso di impotenza. Siamo stati la prima generazione che ha sentito, anche indirettamente di dibattiti sulla “fine della storia”, intesa come fine della dialettica fra le forze sociali, capace di innescare mutamenti sociali duraturi. L’ironia è un modo per ignorare e decostruire questo meccanismo, per entrare in relazione con gli altri, senza piangersi eccessivamente addosso. E’ quindi una risorsa preziosa. Ma quali sono gli effetti del suo uso in un’epoca dove, per dirla alla Ennio Flaiano, la “satira supera la realtà”, in cui non c’è quasi più nessun valore cardine da decostruire? David Foster Wallace, uno dei pochi scrittori di questi anni a cui non esiterei di affibbiare l’ abusata etichetta di “genio”, riformula il problema in questa metafora:

“Questi ultimi anni dell'era postmoderna mi sono sembrati un po' come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po' va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l'autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po' di ordine, cazzo...”

La casa che va a fuoco è la nostra realtà quotidiana. I genitori non torneranno. Siamo noi, suggeriva David, a dover diventare “genitori”. Possiamo andare avanti a decostruire e a “sballarci” di non senso, ma è come continuare a mettere a soqquadro casa nostra, incuranti della fine della festa e del post-sbronza. L’ironia, come dicevo sopra, è una risorsa importante, ma va avanti per negazioni, decostruzioni, disincanto progressivo.

Esuberi e deserti

Il secondo aspetto forte di “non senso” è forse però molto più critico e materiale del primo. E’ quello che ciascuno di noi ha sperimentato o sta sperimentando sulla sua pelle. Veniamo da un mondo, che i nostri genitori (quelli che per rimanere a Foster Wallace, non torneranno) ci hanno dipinto in altri termini. Forti dello sviluppo materiale che separava la loro generazione da quella dei loro padri, ci hanno trasmesso il senso di uno sviluppo e di una “promessa di felicità” ascendente e potenzialmente illimitata. Crescendo abbiamo dovuto fare i conti con una realtà molto diversa, e con implicazioni molto più profonde del semplice impoverimento materiale. La realtà di sentirsi prima di tutti degli “esuberi” piuttosto che delle risorse. La maggior parte di noi ha sperimentato questa condizione. Il sentirsi “di troppo” è una condizione relativamente nuova, che taglia completamente i legami con la generazione precedente, connettendoci forse maggiormente con le generazioni che hanno preceduto la generazione degli anni ’60 e ’70, quella dei nostri nonni. Ed è una condizione che svuota completamente “di senso” il nostro rapporto con la società. Se sono un esubero non potrà fregarmene di meno di partecipare alla creazione di un tessuto civile e avrò un rapporto sicuramente più conflittuale con il “significato” di quello che vivo. Mi hanno definito secoli fa come “animale sociale”, allora il senso della mia vita deriverà in larga parte anche da quello che riesco a lasciare agli altri. La nostra società delega gran parte di questo lascito al lavoro. Cosa succede, se di lavoro non ce n’è? O se mi fanno capire quotidianamente che sono assolutamente intercambiabile? Credo che la risposta per chi la vive quotidianamente sia superflua.


Nulla di nuovo, mi si obbietterà. E’ vero. Nulla di nuovo. La nostra non è sicuramente la prima generazione nella storia ad affrontare queste difficoltà. Ma, oltre ad essere la seconda che ha vissuto un’alfabetizzazione di massa e la prima in assoluto ad avere accesso ai mezzi di comunicazione, la mia è forse la prima generazione sprovvista di “codici” per affrontare questo passaggio epocale. I tanti italiani immigrati all’estero venivano da generazioni di stenti e povertà, ma anche da riferimenti e coordinate secolari. La cultura contadina aveva i suoi valori, la sua etica, i suoi rituali, la sua religiosità. La cultura operaia, i suoi schemi di conflitto e contrapposizione, e la forza (o forse la pretesa) di sviluppare un tipo di cultura e una gerarchia di valori autonoma da quella dei “padroni”. Il “sol dell’avvenir” era la realizzazione di quelle premesse.
Nel nostro deserto non esistono cartine, né indicazioni, nè oasi. Esistono una gran quantità di miraggi e una miriade di sentieri, che spesso si percorrono da soli.

Any Way Out?

Quali soluzioni? Non sono un timoniere, ma solo un precario navigante. Credo però che non basti più decostruire la realtà che stiamo vivendo. Non si tratta di rinunciare a ridere. Credo però che sia inutile continuare a fornire ironiche negazioni, se non si ricominciano a produrre affermazioni. Forgiare volontà è essenziale per ricomporre una realtà complessa e frammentata, ma anche per ricomporre le nostre identità.




Un primo passo, è forse quello di decolonizzare il nostro immaginario. Evitare di considerarci degli esuberi, ripensare il rapporto esistente tra “lavoro e carriera” e l'immagine che abbiamo di noi stessi, recuperare una cultura del dono e della creatività sganciata da mere logiche mercantili, riconsiderare la nostra “funzione sociale” al di là dalle logiche della "rappresentazione", ripartendo dai nostri reali bisogni, recuperare una reale dimensione relazionale indipendente dal puro edonismo e dalla sola dimensione ludica. Ricominciare a considerare prospettive e progettualità. “Diventare genitori” significa bonificare il deserto di significati che la società post industriale ci ha posto davanti e cominciare a farlo non solo per noi, ma anche per chi ci succederà. Non ci sono facili azioni di massa da intraprendere. Non più. Ci sono atti di resistenza individuale che ogni “uomo di buona volontà”, per proprie passioni e competenze, è chiamato a portare avanti.

Con una premessa però, che può suonare retorica, ma che scavalca ogni contingenza o sovrastruttura. La terra appartiene a chi dalla terra è ferito, sin dalla prima cicatrice. Così è sempre stato. Così continuerà a essere.