Parlavo qualche giorno fa delle tante storie che scorrono collaterali a questa sarabanda di impasti di governo, riti tribali e gossip. Mi è balzata distrattamente all'occhio l'altro giorno, la notizia della protesta degli immigrati di Brescia . Premetto che per capire cosa rivendicano questi uomini ho impiegato parecchio . Non c’è spazio per l’analisi nell’era delle breaking news globali. Capisci presto che questi quindici lavoratori stanno reclamando il permesso di soggiorno. Nessuno si concentra però sulle loro storie e sui vincoli legislativi che negano il raggiungimento di questo status. Sono 15 termini di un’equazione già nota. Sono su una gru. Giù volano bottigliate. Fino a quando sono lì sopra le telecamere saranno accese. Poi passeranno ad altro. Chissà se qualcuno ricorderà mai che la legge che nega il loro ingresso porta il nome “Bossi- Fini”. Il secondo termine del tandem ora si erge a paladino della patria multietnica e dei diritti delle minoranze. Ieri si vantava di aver varato una legge all’avanguardia in termini di immigrazione. Una legge vecchia quanto il cucco.
Sono nipote di immigrati, cerco di non dimenticarmelo mai. Non era un’altra nazione quella dove i miei nonni si sono recati. Era la Milano degli anni ’50, la città simbolo del boom economico. Per loro era quasi lo stesso. Le dinamiche applicate nei confronti dei lavoratori provenienti dal sud (e i conseguenti ricatti) erano più o meno le stesse a cui oggi sono sottoposti gli extracomunitari. Anche le discriminazioni non differivano poi tanto da quelle a cui sono soggetti molti lavoratori del sud o dell’est del mondo. Eppure i miei nonni quella città l’hanno amata. Poi, da perfetti abruzzesi sono tornati. Mio nonno si è messo addirittura a coltivare un piccolo lembo di terra sabbioso vicino al mare. Mia nonna diceva che mio nonno per l’agricoltura non era proprio tagliato. Penso avesse ragione. Nei pomeriggi d’inverno mi parlava dei vecchi Navigli. Di una città fredda e nebbiosa che entrambi avevano conquistato piano. Nelle sveglie all’alba, nelle fiere, nella fatica quotidiana. Nel disperato orgoglio di chi la sopravvivenza e il suo piccolo scantinato nel mondo deve sudarselo ogni giorno.
La seconda notizia che mi ha colpito è relativa ad un paese a cui mi sento, per varie vicende personali, legato. Il primo crack è stato quello greco. Ora c’è paura per le finanze irlandesi. La tigre celtica non ruggisce più. Anzi. Ho passato un anno della mia vita in Irlanda. Ho fatto ogni tipo di mestiere, dal lavapiatti al commesso. La Dublino che ricordo era un crogiuolo di ottimismi convergenti da tutti i continenti. Era facile, molto facile trovare lavoro 5- 6 anni fa. Ottime le paghe. Molte le aziende multinazionali straniere che investivano lì. Ne derivava una sensazione da perenne città dei balocchi, un’ondata di prosperità e di benessere che il piccolo paese, un tempo terra di emigranti, non aveva mai conosciuto nella sua storia. A tratti rimpiango ancora quel clima. Mi mancano molte cose di quell’Irlanda, ma a parte alcuni incontri e alcune sensazioni che non dimenticherò, non ho mai amato a fondo Dublino. Eravamo immersi in un perenne dì di festa. Ho avuto sempre un inconscio senso di insofferenza per tutto questo. Credo che a tratti riuscissi a percepirne la precarietà e la superficialità. Qualche irlandese mi diceva che non riconosceva più la città dove era cresciuto.
Un sera passeggiavo con la mia ragazza di allora per O’ Connell Street, la via principale della città. Si avvicina una donna irlandese e attacca bottone. Ci domanda da dove proveniamo. “Siamo italiani” rispondo io. Lei mi risponde “E che siete venuti a fare? Tutti vengono qui e rubano il lavoro ai nostri ragazzi”. Ai tempi lavoravo come lavapiatti. Le ho risposto semplicemente che se suo figlio voleva lavorare come "Kitchen porter” poteva accomodarsi. Il prezzo erano mani perennemente screpolate, mal di schiena e bestemmie quotidiane (tante). Lei è andata avanti (ubriaca) a inveire contro i “fucking foreigners” che rubavano il lavoro ai loro ragazzi. Di storie del genere ne ho collezionate diverse. Come in un albergo, quando un cuoco mi guarda e fa “Si vede che sei Italiano. E se lavori come cameriere qui vieni certamente dal sud.”
Sono frasi idiote, ma che fanno cadere le braccia. E di braccia ne avevo bisogno. Ci sono stati dei periodi in cui mi sono trovato anche a svolgere due lavori. Dodici, tredici ore al giorno e poi si ripartiva. Sempre a correre, a strappare disperatamente qualche minuto di sonno al cielo piovoso di Dublino. Uno di questi era in un ristorante, tavola calda della National Gallery of Ireland (si mangia bene, ora posso dirlo). Io e un gruppo di cinesi, per quasi un mese. Per la prima volta sperimentavo il razzismo al contrario. Il fastidio di sentire gli altri attorno comunicare in una lingua che non puoi capire. Il fastidio di mangiare una scodellina di riso freddo, mentre gli altri si abbuffano degli scarti più prelibati della cucina. Non è stato facile non cedere al risentimento. E infatti non l'ho fatto. Poi hanno cominciato a prevalere i gesti. La solidarietà o la coscienza di essere incatenati lì a sparecchiare tavoli, mentre la vita se ne andava via tra le colazioni e le gambe della turista francese seduta in terza fila. Ho provato ad ascoltarle le storie di questi ragazzi. Alcuni avevano appena venti anni. Due lavori, più l'università. Molti studiavano informatica. Molti erano a Dublino perchè semplicemente non avevano scelta. Abitavano nelle campagne e, per legge, non potevano spostarsi nelle città del loro paese, e conseguentemente nemmeno studiare. Li guardavo e pensavo che non avrebbero mai goduto del frutto dei loro sforzi. Sarebbero state le future generazioni a farlo probabilmente. Mi chiedevo se quel loro stare lì a rincorrere strenuamente il modello occidentale fosse la fine di un mondo o forse l'inizio di un altro. Ci siamo salutati tutti in un ristorante cinese nei pressi del mio quartiere, a detta loro, uno dei migliori della città. Lunedì, cinque del pomeriggio. L'unico momento della giornata in cui nessuno lavorava. Uno dei pranzi più divertenti della mia vita.
La lezione più grande l’ho imparata forse da un mio datore di lavoro. Lui era polacco. Gestiva una videoteca e mi aveva preso in simpatia. Una brava persona. Colto, laureato in storia, scherzavamo spesso e parlavamo dell’Italia, della Polonia e di come la storia del dopoguerra avesse complicato il tutto, per loro, ma anche per noi. Entravano tanti ubriachi nella nostra videoteca. Alla gente di Dublino nord piace bere fuori dai pasti. Era facile che qualcuno si lasciasse andare a leggerezze contro gli addetti al noleggio. Su una cosa sola il mio amico era intransigente. “Lasciali parlare. Sorridi sempre. Anche se sono ubriachi sono simpatici, ci si può scherzare. Ma se qualcuno ha qualcosa da ridire sul fatto che tu sei italiano o lei è polacca, sbattili semplicemente fuori. Guadagnerò meno, ma dei coglioni posso anche fare a meno”. Nessuno mi ha mai detto nulla. Al massimo si scherzava un po’ sul calcio o sulle donne. Ma mi è sempre piaciuto il suo atteggiamento. La sua dignità.
Non ho amato quella Dublino, ma ho sempre amato gli irlandesi. Una popolazione schietta, calda, composta di ottimi bevitori e (malgrado i due sciagurati esempi che ho citato sopra) molto accogliente. Mi domandavo semplicemente come una terra di emigranti potesse avere a tratti la memoria così corta. Quanto siano semplici e banali i procedimenti che portano implicitamente al razzismo. A Dublino come a Brescia, a Roma come a Milano. In quella città ora vorrei tornare. Un amico che c’è stato recentemente dice che l’ha trovata assai cambiata. Meno gente, forse anche più sobrietà, chissà.
Credo che ci sia un nastro sottile che unisce unisce una campagna cinese, una periferia dublinese e uno dei tanti hinterland delle nostre città e molti altri luoghi ancora. Un nastro che deve rimanere invisibile ai più. E' più comodo gridare all'invasione aliena. Senza pensare che la repulsione di ciò che viene considerato come"alieno", nasconde sempre la paura di diventare "alieni".
Ho ancora il conto delle bestemmie, degli insulti, delle volte che ho detto "Basta ora torno a casa". Ma non ringrazierò mai abbastanza per averlo vissuto quell'anno. E' stata una sorta di educazione sentimentale che mi ha portato a percepire differentemente tante cose.
Vorrei tornare Dublino e lo farò un giorno. Vorrei parlare con la sua gente, parlarci ora. Sono convinto che nei suoi vicoli deserti è nascosta una lezione ancora valida. Valida dappertutto. Anche qui.
"Qui resta la mezza Sofronia dei tirassegni e delle giostre, con il grido sospeso della navicella dell'ottovolante a capofitto, e comincia a contare quanti mesi, quanti giorni dovrà aspettare prima che ritorni la carovana e la vita intera ricominci"
domenica 14 novembre 2010
domenica 7 novembre 2010
Parole a memoria
"Sono il disordinato frequentatore delle più nascoste rotte, dei più segreti approdi. Delle loro inutilità e della loro ignota ubicazione si nutrono i miei giorni.
Ogni frutto è un occhio cieco estraneo alle più soavi sostanze. Ci sono regioni dove l'uomo scava nella sua felicità le brevi volte di uno scontento senza ragione e senza rimedio.
Segui le navi. Segui le rotte che solcano le logore e tristi imbarcazioni. Non ti fermare. Evita perfino il più umile ancoraggio. Risali i fiumi. Discendi i fiumi. Confonditi nelle piogge che inondano le pianure. Rifiuta ogni sponda.
Nota quanto abbandono regna in questi luoghi. Così i giorni della mia vita. Non fu altro. Ormai non potrà esserlo.
Le donne non mentono mai. Dalle più segrete intimità del loro corpo scaturisce sempre la verità. Accade che ci sia dato di decifrarla con una parsimonia implacabile. Ci sono molti che mai la ottengono e muoiono nella cecità senza scampo dei loro sensi.
Esistono due metalli che allungano la vita e concendono, a volte la felicità. Non sono nè l'oro, nè l'argento, nè cosa che gli somigli. So solo che esistono.
Io avrei seguito le carovane. Sarei morto sotterrato dai cammellieri, coperto dallo sterco delle loro greggi, sotto l'alto cielo degli altipiani. Meglio, sarebbe stato molto meglio. Il resto, in verità, non è stato interessante"
(Alvaro Mutis "La neve dell'ammiraglio")
Ogni frutto è un occhio cieco estraneo alle più soavi sostanze. Ci sono regioni dove l'uomo scava nella sua felicità le brevi volte di uno scontento senza ragione e senza rimedio.
Segui le navi. Segui le rotte che solcano le logore e tristi imbarcazioni. Non ti fermare. Evita perfino il più umile ancoraggio. Risali i fiumi. Discendi i fiumi. Confonditi nelle piogge che inondano le pianure. Rifiuta ogni sponda.
Nota quanto abbandono regna in questi luoghi. Così i giorni della mia vita. Non fu altro. Ormai non potrà esserlo.
Le donne non mentono mai. Dalle più segrete intimità del loro corpo scaturisce sempre la verità. Accade che ci sia dato di decifrarla con una parsimonia implacabile. Ci sono molti che mai la ottengono e muoiono nella cecità senza scampo dei loro sensi.
Esistono due metalli che allungano la vita e concendono, a volte la felicità. Non sono nè l'oro, nè l'argento, nè cosa che gli somigli. So solo che esistono.
Io avrei seguito le carovane. Sarei morto sotterrato dai cammellieri, coperto dallo sterco delle loro greggi, sotto l'alto cielo degli altipiani. Meglio, sarebbe stato molto meglio. Il resto, in verità, non è stato interessante"
(Alvaro Mutis "La neve dell'ammiraglio")
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mercoledì 3 novembre 2010
Tra le rughe di Dorian Gray (O tra pelo e buoi)
Ho davanti una vecchia signora imbellettata. Si veste trendy, cool, à la page (altri aggettivi fighetti trovateli voi). Usa frasi giovanilistiche, compete con giovani tronisti e soubrette, ama proferire volgarità e anche ammantarsi di vestiti sottili e scollature in presenza di telecamere, se vi va. Mi metto a ridere. Avverto che quella signora è il contrario di ciò che dovrebbe essere. Poi rifletto. Penso che quella signora probabilmente non prova più piacere nel mostrarsi in questo stato, ma che anzi forse ne soffre. Sento (non avverto, attenzione) che quella signora è il contrario di quello che dovrebbe essere. Vi suona famigliare? E’ una metafora e non è mia. E’ , con qualche piccola-grande variazione formale, la metafora che Pirandello usava per spiegare la differenza fra comico e umoristico. Se avverto sono nel comico, se sento (opzione 2), sono nell'umoristico. Nello sfogliare le prime pagine dei giornali di questi giorni mi è ritornata in mente . Lasciamo perdere la drammaticità e gli aspetti legali. C’è qualcosa di profondamente umoristico in queste cronache da basso impero, che non può affiorare.
Pensare che l’ultima sparata di Berlusclown sia frutto di demenza senile, impotenza sessuale o abbagli da mix coca-viagra e via dicendo è puro ottimismo. Io credo semplicemente che riflettano il modello di comunicazione che usa da quindici anni (ma anche oltre a questa parte). Non lo deduco dalle affermazioni. Lo deduco dalle risposte. Apro Facebook e leggo su molti profili la frase “Meglio gay, che Berlusconi”. Che implica questa forma?
Implica innanzitutto il termine Berlusconi come metro di paragone , pietra miliare dal quale tracciare vizi, inclinazioni e virtù. In secondo ordine la formula “meglio” implica un peggio, quindi relativizza una condizione che di per sé non dovrebbe comportare ne positività, né negatività. Innesca una forma di linguaggio di per sé inquinata quindi. E questa non è un’eccezione. E’ un paradigma lungo almeno quindici anni.
Allora penso che la più grande vittoria di Berlusclown è stata quella di dettare quello che nelle comunicazioni di massa si chiama agenda setting, l’agenda degli eventi (gli sfigati comunicatori come me capiranno, per tutto il resto c'è wikipedia). La dialettica che sottintende molti dei nostri discorsi. La sua abilità è stata quella di minare la superficie stessa del nostro linguaggio.
Ci ha inglobato dentro il suo cinepanettone semantico. Qui non possiamo più vederlo. Non possiamo vedere un vecchio settantenne liftato all’inverosimile, con ricrescite miracolose di capelli, che fa finta di essere un aitante ventenne. Non possiamo sentire il contrario. Come non potevano sentirlo le folle radunate sotto Palazzo Venezia, mentre un uomo dalle buffe movenze gesticolanti additava la rinascita di un impero. Chi gli si contrappone sembra semplicemente un vecchio trombone. Moralista, pedante, palloso. Quasi democristiano nel richiamo alla sobrietà e ai “valori istituzionali”.
Tocca un punto sensibile il Berlusclown. Chi si occupa di comunicazione (ma semplicemente ogni persona dotata di buon senso) sa benissimo cosa tira di più fra un pelo e un carro di buoi. Non sono un moralista. Ho le mie opinioni, ma il fenomeno lo trovo scontato, arrivato a questa veneranda età. Non me la sento di appellarmi al decoro (E' ragionevole piuttosto appellarsi alla legalità o a quello che ne rimane, nel caso di minorenni o abusi di potere, per quello che vale). E chi lo fa ha già perso.
Il problema vero è che qui tra il pelo e i buoi, ci sono tante, troppe cose. C'è chi a 30, 40 o 50 anni non ha un lavoro e si sente da buttare. Chi ce l'ha e non sa cosa farà domani. C'è chi muore in carcere. C'è il taglio del 90% delle borse di studio universitarie. C'è chi è discriminato ogni giorno. Magari perchè è albanese. Magari perchè viene pestato in una ridente periferia italiana per orientamenti politici, sessuali o esistenziali. Magari perchè abita al sud e si è messo in testa l'insana idea di pretendere legalità, nonostante nessuno sappia più cosa significhi questa magica parolina. Magari perchè non può studiare o perchè non ha gli "agganci giusti" per avviare una carriera o trovarsi un lavoro. O semplicemente perchè ha un figlio e sa che non potrà mai garantirgli un futuro. E allora? E allora raccontateci (e raccontiamoci) un'altra storia. La storia di quel gran pezzo d'Italia dimenticato tra il pelo presidenziale e i buoi del così non si fa (che "così non si fa" lo sappiamo tutti da quasi venti anni). Toccherebbe provare riappropriarsi del linguaggio. Stare attenti, molto attenti ai significati.
Ma basterebbe forse ricominciare a farci domande. Nel blog di un amico, ne ho trovate alcune. Ognuno ha le sue. Inespresse. Inascoltate da quasi ogni media di massa. Da pressochè ogni partito di questo magico arco costituzionale. Ogni risposta che si riesce a fornire è l'incipit di una storia nuova. Un passo verso la magica trasformazione di un puttaniere supereroe in un vecchio col cerone, con la pelle così tirata da serrare, ma non sconfiggere il tempo che passa. Che passa per tutti. Anche per i totalitarismi basati sulle barzellette e le operette di appendice.
Ogni risposta a una domanda reale per la nostra vita e per quella di chi ci sta intorno è un passo in avanti verso un il fermo-immagine di un vecchio che non può accettare gli ovvi problemi relativi alla virilità persa. Verso la descrizione della signora citata da Pirandello, in un bel saggio che ho quasi scordato. Una ruga in più nel volto di quel Dorian Gray padrone della nostra paralisi.
Pensare che l’ultima sparata di Berlusclown sia frutto di demenza senile, impotenza sessuale o abbagli da mix coca-viagra e via dicendo è puro ottimismo. Io credo semplicemente che riflettano il modello di comunicazione che usa da quindici anni (ma anche oltre a questa parte). Non lo deduco dalle affermazioni. Lo deduco dalle risposte. Apro Facebook e leggo su molti profili la frase “Meglio gay, che Berlusconi”. Che implica questa forma?
Implica innanzitutto il termine Berlusconi come metro di paragone , pietra miliare dal quale tracciare vizi, inclinazioni e virtù. In secondo ordine la formula “meglio” implica un peggio, quindi relativizza una condizione che di per sé non dovrebbe comportare ne positività, né negatività. Innesca una forma di linguaggio di per sé inquinata quindi. E questa non è un’eccezione. E’ un paradigma lungo almeno quindici anni.
Allora penso che la più grande vittoria di Berlusclown è stata quella di dettare quello che nelle comunicazioni di massa si chiama agenda setting, l’agenda degli eventi (gli sfigati comunicatori come me capiranno, per tutto il resto c'è wikipedia). La dialettica che sottintende molti dei nostri discorsi. La sua abilità è stata quella di minare la superficie stessa del nostro linguaggio.
Ci ha inglobato dentro il suo cinepanettone semantico. Qui non possiamo più vederlo. Non possiamo vedere un vecchio settantenne liftato all’inverosimile, con ricrescite miracolose di capelli, che fa finta di essere un aitante ventenne. Non possiamo sentire il contrario. Come non potevano sentirlo le folle radunate sotto Palazzo Venezia, mentre un uomo dalle buffe movenze gesticolanti additava la rinascita di un impero. Chi gli si contrappone sembra semplicemente un vecchio trombone. Moralista, pedante, palloso. Quasi democristiano nel richiamo alla sobrietà e ai “valori istituzionali”.
Tocca un punto sensibile il Berlusclown. Chi si occupa di comunicazione (ma semplicemente ogni persona dotata di buon senso) sa benissimo cosa tira di più fra un pelo e un carro di buoi. Non sono un moralista. Ho le mie opinioni, ma il fenomeno lo trovo scontato, arrivato a questa veneranda età. Non me la sento di appellarmi al decoro (E' ragionevole piuttosto appellarsi alla legalità o a quello che ne rimane, nel caso di minorenni o abusi di potere, per quello che vale). E chi lo fa ha già perso.
Il problema vero è che qui tra il pelo e i buoi, ci sono tante, troppe cose. C'è chi a 30, 40 o 50 anni non ha un lavoro e si sente da buttare. Chi ce l'ha e non sa cosa farà domani. C'è chi muore in carcere. C'è il taglio del 90% delle borse di studio universitarie. C'è chi è discriminato ogni giorno. Magari perchè è albanese. Magari perchè viene pestato in una ridente periferia italiana per orientamenti politici, sessuali o esistenziali. Magari perchè abita al sud e si è messo in testa l'insana idea di pretendere legalità, nonostante nessuno sappia più cosa significhi questa magica parolina. Magari perchè non può studiare o perchè non ha gli "agganci giusti" per avviare una carriera o trovarsi un lavoro. O semplicemente perchè ha un figlio e sa che non potrà mai garantirgli un futuro. E allora? E allora raccontateci (e raccontiamoci) un'altra storia. La storia di quel gran pezzo d'Italia dimenticato tra il pelo presidenziale e i buoi del così non si fa (che "così non si fa" lo sappiamo tutti da quasi venti anni). Toccherebbe provare riappropriarsi del linguaggio. Stare attenti, molto attenti ai significati.
Ma basterebbe forse ricominciare a farci domande. Nel blog di un amico, ne ho trovate alcune. Ognuno ha le sue. Inespresse. Inascoltate da quasi ogni media di massa. Da pressochè ogni partito di questo magico arco costituzionale. Ogni risposta che si riesce a fornire è l'incipit di una storia nuova. Un passo verso la magica trasformazione di un puttaniere supereroe in un vecchio col cerone, con la pelle così tirata da serrare, ma non sconfiggere il tempo che passa. Che passa per tutti. Anche per i totalitarismi basati sulle barzellette e le operette di appendice.
Ogni risposta a una domanda reale per la nostra vita e per quella di chi ci sta intorno è un passo in avanti verso un il fermo-immagine di un vecchio che non può accettare gli ovvi problemi relativi alla virilità persa. Verso la descrizione della signora citata da Pirandello, in un bel saggio che ho quasi scordato. Una ruga in più nel volto di quel Dorian Gray padrone della nostra paralisi.
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lunedì 1 novembre 2010
Pioggia di Novembre
Primo novembre. Piove. Non ricordo un giorno dei santi diverso, da anni. Scarpe sporche di fango, pioggia che picchietta sugli ombrelli, odore di lumini spenti e di acqua santa: penso al suono della sveglia,a mia madre che alza la serranda, a mio padre che maledice il cielo. Penso a una città di provincia. Tutte le mie origini sono condensate in un sottile lembo di terra a ridosso di due montagne. Una di queste si chiama “Montagna dei fiori”. Me ne stavo lì a guardarla tingersi e spogliarsi di nebbia e nuvole, mentre mia madre cambiava l’acqua ai vasi e le pioggia spegneva le candele. Cimiteri. C’è qualcosa che mi è sempre sfuggito di fronte a una tomba. Non sono credente, ma non credo dipenda da questo. Stargli di fronte è come stare di fronte a un mistero che ti stanca fino a farti sbadigliare. Non riesco ad andare oltre all’orrendo colore del marmo, al riflesso sbiadito del mio volto sulla sua superficie. Quando da bambino arrivavo a scorgerlo, buttavo istintivamente gli occhi lontano, verso le due montagne. Le stesse che avevano fissato i miei antenati probabilmente. Mia nonna sistemava i fiori. Cambiava l’acqua i vasi, accendeva candele, si dava da fare. Tutta una serie di rituali a cui io non attribuivo alcun senso. Quelle azioni erano il suo “contatto”, il suo modo personale di sconfiggere la morte. Assomigliavano ai gesti di ogni giorno, compiuti quando i defunti erano in vita. Una sorta di prosecuzione ideale dello stirare i fazzoletti o del ripiegare le lenzuola. Guardo i rivoli di pioggia che scivolano obliqui sul vetro della mia stanza e capisco forse ora la lezione di quei gesti semplici e apparentemente insensati: non c’è amore senza gesto, religiosità senza ritualità, come non può esistere forma senza sostanza.
Primo novembre. Piove. Non sono tornato a casa. C’è qualcosa di ineluttabile nella pioggia che cade lì fuori. Non puoi fare nulla per fermarla e allora ti arrendi. Mi avvicino al vetro e ripenso alle finestre dalle quali mi sono affacciato e ho fissato per davvero.
Un cortile di Varsavia, panni stesi ad asciugare sopra muri screpolati, calcinacci che cadono sui piedi dei bambini, mentre una palla rotola via nel freddo.
Un sottoscala di Dublino e una stanza troppo umida: la finestra minuscola si affaccia su un piccolo cortile colmo di cianfrusaglie buttate da altri.
Una casa sull’Adriatico, le ragazze con i vestiti a fiori e le gonne corte, l’odore del mare e dell’estate, il casino dei ragazzi che escono da scuola e i soffioni che volano per la via.
Un albero e un piccolo giardino a Firenze,le piccole strisce d’erba che si arrampicano sul cemento e un gatto che guarda ipnotizzato il prato.
La notte che stinge, le antenne che si riprendono il cielo, un letto disfatto e un appartamento al terzo piano; i campanelli delle prime biciclette che si affacciano per la via.
Ogni fotogramma ha una sua narrativa, un suo destino. Non so qual è quello che sottintende queste due piccole curve vicino alla Tuscolana, la casa a mattoncini di fianco,l’insegna del Bar-Latteria qui sotto. Sfioro il vetro con le dita, sento la forza e l’ostinazione di essere vivo e presente a me stesso, al di là di tutti i fotogrammi che mi hanno preceduto. Qui. Ora.
Guardo ancora un po’ la strada, gli alberi che si spogliano piano, la gente con gli ombrelli per la via’. Poi è ora di spingermi dove non mi sono mai spinto. Dove solo io posso andare. La prossima riga.
Primo novembre. Piove. Non sono tornato a casa. C’è qualcosa di ineluttabile nella pioggia che cade lì fuori. Non puoi fare nulla per fermarla e allora ti arrendi. Mi avvicino al vetro e ripenso alle finestre dalle quali mi sono affacciato e ho fissato per davvero.
Un cortile di Varsavia, panni stesi ad asciugare sopra muri screpolati, calcinacci che cadono sui piedi dei bambini, mentre una palla rotola via nel freddo.
Un sottoscala di Dublino e una stanza troppo umida: la finestra minuscola si affaccia su un piccolo cortile colmo di cianfrusaglie buttate da altri.
Una casa sull’Adriatico, le ragazze con i vestiti a fiori e le gonne corte, l’odore del mare e dell’estate, il casino dei ragazzi che escono da scuola e i soffioni che volano per la via.
Un albero e un piccolo giardino a Firenze,le piccole strisce d’erba che si arrampicano sul cemento e un gatto che guarda ipnotizzato il prato.
La notte che stinge, le antenne che si riprendono il cielo, un letto disfatto e un appartamento al terzo piano; i campanelli delle prime biciclette che si affacciano per la via.
Ogni fotogramma ha una sua narrativa, un suo destino. Non so qual è quello che sottintende queste due piccole curve vicino alla Tuscolana, la casa a mattoncini di fianco,l’insegna del Bar-Latteria qui sotto. Sfioro il vetro con le dita, sento la forza e l’ostinazione di essere vivo e presente a me stesso, al di là di tutti i fotogrammi che mi hanno preceduto. Qui. Ora.
Guardo ancora un po’ la strada, gli alberi che si spogliano piano, la gente con gli ombrelli per la via’. Poi è ora di spingermi dove non mi sono mai spinto. Dove solo io posso andare. La prossima riga.
lunedì 25 ottobre 2010
Quello che non
La politica italiana mi annoia. Qualche tempo fa mi faceva incazzare, ora prevale lo sbadiglio. La trovo sempre più somigliante alla mitologia che alla “politica” in senso stretto. Un universo mitologico pacchiano, intriso di geriatria e decolté. A volte questo universo viene attraversato da qualche scossa tellurica. Queste scosse sono le uniche essenze che ci porgono al di fuori dell’autoreferenzialità, che ci ricordano che questo serial per casalinghe frustrate e tossicodipendenti mediatici è immerso in un palinsesto ben più grande, che non solo la scavalca,ma che se ne frega anche delle sue dinamiche interne. La scossa di ieri sera si chiamava Marchionne. Il presidente della Fiat ha dichiarato candidamente a un talk show, che “nessuno dei profitti della fiat proviene dall’Italia” e che anzi l’azienda di Torino farebbe molti più incassi se la smettesse di investire in Italia. E' indubbiamente un espressione infelice, o meno prosaicamente, una frase del cazzo. Equivale a dire a migliaia di dipendenti: voi siete assolutamente inutili, lo sapete? Apprezzo però questo: nel Paese del "dico e non dico" e delle pajate riparatrici, è uno dei pochi a parlare chiaro. E a ricordare una cosa fondamentale: che i contrasti capitale lavoro non sono terminati con il secolo scorso e che rimangono un settore critico dello scenario socio-economico.
Come parla Marchionne? Parla semplicemente come il presidente di una multinazionale e i direttori di multinazionali non si possono permettere troppe licenze poetiche. Sta giocando una partita che ha le sue regole, o si applicano queste regole,o la partita si perde. Ci vogliamo concentrare sulla regole o sul singolo giocatore? Giudicate dalle reazioni: “Parla come uno straniero” (Epifani), “Non diventiamo cinesi” (Bersani), “E’ indegno” (Di Pietro): nessuno a sinistra (insomma quell’area che dovrebbe assomigliargli, diciamo) ha il coraggio di arrivare al nocciolo del problema. Il più a sinistra di tutti è come al solito Fini, che si azzarda a ricordare gli incentivi statali ricevuti dalla FiAT in tutti questi anni. Troppa grazia.
Io credo ci siano due livelli di lettura. Il primo è puramente pragmatico. Non capisco nulla di politica economica e industriale, ma se siamo al sessantesimo (e passa) posto della classifica per la competitività industriale e i maggiori paesi europei figurano ai primi dieci posti, qualche problemino lo abbiamo. Non sono nelle condizioni di parlare di questo livello di lettura, perché primo non mi va di parlare di cose che non conosco, in seconda battuta perché è quello che mi interessa di meno.
Il secondo livello dovrebbe essere più sistemico. Penso che sia stupido additare al “cattivo” se non si analizza seriamente lo scenario. Qual è lo scenario? Quello di un’economia di rapina, di capitali spostati in un click, capaci di deprimere e rovinare vite e nazioni, di dinamiche che non differiscono poi molto da quelle delle grandi organizzazioni criminali. Di una delocalizzazione che obbliga le aziende ad abbassare salari e diritti per abbattere costi e aumentare la produttività. Banalmente lo scenario è quello di lavorare sempre più ore al giorno per produrre accessori spesso inutili, e ottenere un salario capace di acquistare la stessa paccottiglia che fa sì che il sistema che mi tiene legato davanti a una pressa meccanica svariate ore al giorno si autoriproduca. Di un welfare che non esiste più per larga parte degli abitanti di questo paese e dell’intero occidente. Non si tratta di vagheggiare di utopici ritorni all'età della pietra o di inesistenti "età perdute". Si tratterebbe solo di ricominciare a ragionare.
Perché il mercato dell’auto è in crisi? Faccio un esempio. Mio padre a 30 anni aveva già comprato la sua prima auto (e se per questo aveva anche una casa e un figlio a carico). Quanti ragazzi a 30 anni possono permettersi di comprare un auto? Non fa nulla, investiamo nei mercati emergenti, mi si dirà. Siamo sicuri che, anche con un netto miglioramento della tecnologia in chiave ecologica, il pianeta possa sopportare il consumismo di due nuove miliardi di persone senza scoppiare? Eppure abbiamo cominciato noi, o no?
Qualcuno pensa alla globalizzazione come a uno stretto di comando, gestito da un pugno di staricchi e folli ammiragli. Sarebbe questo il “Nuovo ordine mondiale”. Probabilmente è così. Non lo so. Io sono qui a pensare che sarebbe bello pensare a una prospettiva diversa. A un tempo ritrovato, a una conflittualità rinnovata, alla fine di quell’utopia che qualcuno qualche tempo fa chiamava “mito dello sviluppo” o del “falso progresso”, a una nuova gerarchia di valori e di riferimenti , a una nuova idea di socialità, a ricominciare a creare "cultura"(in senso lato) al di fuori dei salotti, insomma, a un orizzonte che sia diverso dal muro dove ci stiamo per schiantare. Dov'è questo dibattito?
Ci penso un po’, ma basterebbero cinque minuti di televisione a farmi sentire un imbecille, o nel più fortunato dei casi un ingenuo radical chic. Mezzi senza più fini, fine della progettualità, la “ragion pratica” che prende la “ragion pura" per i capelli fino a farla rantolare dentro una vasca d’acqua; accendo la tv e hanno tutti una gran voglia di parlare. Mi connetto con qualche social network: idem. Quante di queste parole hanno veramente senso nella vostra giornata? Ho provato a seguirlo un po’ l’ "Affaire Marchionne”, ma prevedo solo altro brusio, fino al prossimo sbadiglio. Esco a fumare una sigaretta. 'Notte.
Come parla Marchionne? Parla semplicemente come il presidente di una multinazionale e i direttori di multinazionali non si possono permettere troppe licenze poetiche. Sta giocando una partita che ha le sue regole, o si applicano queste regole,o la partita si perde. Ci vogliamo concentrare sulla regole o sul singolo giocatore? Giudicate dalle reazioni: “Parla come uno straniero” (Epifani), “Non diventiamo cinesi” (Bersani), “E’ indegno” (Di Pietro): nessuno a sinistra (insomma quell’area che dovrebbe assomigliargli, diciamo) ha il coraggio di arrivare al nocciolo del problema. Il più a sinistra di tutti è come al solito Fini, che si azzarda a ricordare gli incentivi statali ricevuti dalla FiAT in tutti questi anni. Troppa grazia.
Io credo ci siano due livelli di lettura. Il primo è puramente pragmatico. Non capisco nulla di politica economica e industriale, ma se siamo al sessantesimo (e passa) posto della classifica per la competitività industriale e i maggiori paesi europei figurano ai primi dieci posti, qualche problemino lo abbiamo. Non sono nelle condizioni di parlare di questo livello di lettura, perché primo non mi va di parlare di cose che non conosco, in seconda battuta perché è quello che mi interessa di meno.
Il secondo livello dovrebbe essere più sistemico. Penso che sia stupido additare al “cattivo” se non si analizza seriamente lo scenario. Qual è lo scenario? Quello di un’economia di rapina, di capitali spostati in un click, capaci di deprimere e rovinare vite e nazioni, di dinamiche che non differiscono poi molto da quelle delle grandi organizzazioni criminali. Di una delocalizzazione che obbliga le aziende ad abbassare salari e diritti per abbattere costi e aumentare la produttività. Banalmente lo scenario è quello di lavorare sempre più ore al giorno per produrre accessori spesso inutili, e ottenere un salario capace di acquistare la stessa paccottiglia che fa sì che il sistema che mi tiene legato davanti a una pressa meccanica svariate ore al giorno si autoriproduca. Di un welfare che non esiste più per larga parte degli abitanti di questo paese e dell’intero occidente. Non si tratta di vagheggiare di utopici ritorni all'età della pietra o di inesistenti "età perdute". Si tratterebbe solo di ricominciare a ragionare.
Perché il mercato dell’auto è in crisi? Faccio un esempio. Mio padre a 30 anni aveva già comprato la sua prima auto (e se per questo aveva anche una casa e un figlio a carico). Quanti ragazzi a 30 anni possono permettersi di comprare un auto? Non fa nulla, investiamo nei mercati emergenti, mi si dirà. Siamo sicuri che, anche con un netto miglioramento della tecnologia in chiave ecologica, il pianeta possa sopportare il consumismo di due nuove miliardi di persone senza scoppiare? Eppure abbiamo cominciato noi, o no?
Qualcuno pensa alla globalizzazione come a uno stretto di comando, gestito da un pugno di staricchi e folli ammiragli. Sarebbe questo il “Nuovo ordine mondiale”. Probabilmente è così. Non lo so. Io sono qui a pensare che sarebbe bello pensare a una prospettiva diversa. A un tempo ritrovato, a una conflittualità rinnovata, alla fine di quell’utopia che qualcuno qualche tempo fa chiamava “mito dello sviluppo” o del “falso progresso”, a una nuova gerarchia di valori e di riferimenti , a una nuova idea di socialità, a ricominciare a creare "cultura"(in senso lato) al di fuori dei salotti, insomma, a un orizzonte che sia diverso dal muro dove ci stiamo per schiantare. Dov'è questo dibattito?
Ci penso un po’, ma basterebbero cinque minuti di televisione a farmi sentire un imbecille, o nel più fortunato dei casi un ingenuo radical chic. Mezzi senza più fini, fine della progettualità, la “ragion pratica” che prende la “ragion pura" per i capelli fino a farla rantolare dentro una vasca d’acqua; accendo la tv e hanno tutti una gran voglia di parlare. Mi connetto con qualche social network: idem. Quante di queste parole hanno veramente senso nella vostra giornata? Ho provato a seguirlo un po’ l’ "Affaire Marchionne”, ma prevedo solo altro brusio, fino al prossimo sbadiglio. Esco a fumare una sigaretta. 'Notte.
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domenica 17 ottobre 2010
Talking about my generation
Non mi piace parlare della mia generazione. Non mi piacciono più i film generazionali, la gente che ci ricorda “quanto siamo sfortunati”, i discorsi sull’Italia, sul rimanere e sull’andare all’estero e così via. Fatte queste premesse, provo a mettere giù qualche riflessione che mi rimbalza in mente da un pò.
Ironia, disillusione e altri demoni
Credo che se abbiamo una colpa (e per noi, intendo tutti quelli che oscillano in quella fascia di età che va pressappoco fra i 20 e i 35 anni), questa colpa sia stata talvolta quella di uniformarci alle immagini con le quali ci hanno rappresentato. Fotogrammi di ironica e sottile inconcludenza.
Molti degli eroi della cultura pop di questi anni sono stati antieroi. Personaggi che vagavano in una realtà che si andava via via spogliando di significato e futuro. L’unica forma di reazione di questi personaggi a questa condizione era quello di opporre una strenua forma di ironia. Qual’era il senso di questa ironia? Credo che sia meglio partire dalle premesse. Quelle fondamentali credo fossero presso a poco queste: so di non avere futuro, che non vivo nel migliore dei mondi possibili, e se c’era un Palazzo d’Inverno l’hanno già assaltato. Hanno provato a sconfiggere i vecchi zar e cosa ne è venuto fuori? Che il Palazzo d’inverno è ancora in piedi, che pure quando qualcuno dei vecchi “padroni del vapore” è stato sconfitto, i rivoluzionari sono corsi a ricoprirsi delle antiche vesti degli “oppressori”. Poi? Poi sono stati eretti altri steccati. Tutti si sono riconosciuti come liberi e indipendenti, cosa se ne è cavato? Maggiore consapevolezza? No, probabilmente abbiamo assistito alla prima generazione senza una prospettiva che travalicasse la propria esistenza. All’incapacità di portare avanti modelli di convivenza, progetti di ingegneria sociale, in alcuni casi, anche famiglie ed affetti. Molti dei nostri padri (non i miei, e sicuramente non tutti) sono stati i primi a far proprio il motto “Il mondo inizia e finisce con me”. Le conseguenze politiche, economiche e ambientali di questo atteggiamento sono sotto gli occhi di tutti. Sia chiaro, non si stanno facendo processi. Le attenuanti sono molte e le conquiste reali. Quella che ci precede è stata la prima generazione che ha dovuto fare i conti con la cultura consumistica, la prima nelle quali la donna è stata considerata qualcosa in più di un semplice oggetto domestico, la prima in cui minoranze oppresse da secoli hanno avuto voce, solo per fare qualche esempio. Ma chi, come me, è arrivato dopo, e si è trovato a confrontarsi con quella generazione sui banchi di scuola, a lavoro e nei circuiti culturali, ha sviluppato quasi sempre un senso di profonda disillusione.
Perché allora l’ironia come cifra stilistica degli “anni zero”? Innanzitutto come forma di autodifesa. Non prendo sul serio quello che mi circonda, perché so che non posso realmente influire sul reale. Ho già assistito alla presa della Bastiglia e del Palazzo d'Inverno, so com’è andata a finire. Ha senso tentare un altro assalto? Probabilmente no. Nella cultura pop, questo senso di impotenza è ben scandito dal dolore che traboccava dal grunge dei primi anni ’90. L’ironia è il travestimento di questo senso di impotenza. Siamo stati la prima generazione che ha sentito, anche indirettamente di dibattiti sulla “fine della storia”, intesa come fine della dialettica fra le forze sociali, capace di innescare mutamenti sociali duraturi. L’ironia è un modo per ignorare e decostruire questo meccanismo, per entrare in relazione con gli altri, senza piangersi eccessivamente addosso. E’ quindi una risorsa preziosa. Ma quali sono gli effetti del suo uso in un’epoca dove, per dirla alla Ennio Flaiano, la “satira supera la realtà”, in cui non c’è quasi più nessun valore cardine da decostruire? David Foster Wallace, uno dei pochi scrittori di questi anni a cui non esiterei di affibbiare l’ abusata etichetta di “genio”, riformula il problema in questa metafora:
“Questi ultimi anni dell'era postmoderna mi sono sembrati un po' come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po' va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l'autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po' di ordine, cazzo...”
La casa che va a fuoco è la nostra realtà quotidiana. I genitori non torneranno. Siamo noi, suggeriva David, a dover diventare “genitori”. Possiamo andare avanti a decostruire e a “sballarci” di non senso, ma è come continuare a mettere a soqquadro casa nostra, incuranti della fine della festa e del post-sbronza. L’ironia, come dicevo sopra, è una risorsa importante, ma va avanti per negazioni, decostruzioni, disincanto progressivo.
Esuberi e deserti
Il secondo aspetto forte di “non senso” è forse però molto più critico e materiale del primo. E’ quello che ciascuno di noi ha sperimentato o sta sperimentando sulla sua pelle. Veniamo da un mondo, che i nostri genitori (quelli che per rimanere a Foster Wallace, non torneranno) ci hanno dipinto in altri termini. Forti dello sviluppo materiale che separava la loro generazione da quella dei loro padri, ci hanno trasmesso il senso di uno sviluppo e di una “promessa di felicità” ascendente e potenzialmente illimitata. Crescendo abbiamo dovuto fare i conti con una realtà molto diversa, e con implicazioni molto più profonde del semplice impoverimento materiale. La realtà di sentirsi prima di tutti degli “esuberi” piuttosto che delle risorse. La maggior parte di noi ha sperimentato questa condizione. Il sentirsi “di troppo” è una condizione relativamente nuova, che taglia completamente i legami con la generazione precedente, connettendoci forse maggiormente con le generazioni che hanno preceduto la generazione degli anni ’60 e ’70, quella dei nostri nonni. Ed è una condizione che svuota completamente “di senso” il nostro rapporto con la società. Se sono un esubero non potrà fregarmene di meno di partecipare alla creazione di un tessuto civile e avrò un rapporto sicuramente più conflittuale con il “significato” di quello che vivo. Mi hanno definito secoli fa come “animale sociale”, allora il senso della mia vita deriverà in larga parte anche da quello che riesco a lasciare agli altri. La nostra società delega gran parte di questo lascito al lavoro. Cosa succede, se di lavoro non ce n’è? O se mi fanno capire quotidianamente che sono assolutamente intercambiabile? Credo che la risposta per chi la vive quotidianamente sia superflua.
Nulla di nuovo, mi si obbietterà. E’ vero. Nulla di nuovo. La nostra non è sicuramente la prima generazione nella storia ad affrontare queste difficoltà. Ma, oltre ad essere la seconda che ha vissuto un’alfabetizzazione di massa e la prima in assoluto ad avere accesso ai mezzi di comunicazione, la mia è forse la prima generazione sprovvista di “codici” per affrontare questo passaggio epocale. I tanti italiani immigrati all’estero venivano da generazioni di stenti e povertà, ma anche da riferimenti e coordinate secolari. La cultura contadina aveva i suoi valori, la sua etica, i suoi rituali, la sua religiosità. La cultura operaia, i suoi schemi di conflitto e contrapposizione, e la forza (o forse la pretesa) di sviluppare un tipo di cultura e una gerarchia di valori autonoma da quella dei “padroni”. Il “sol dell’avvenir” era la realizzazione di quelle premesse.
Nel nostro deserto non esistono cartine, né indicazioni, nè oasi. Esistono una gran quantità di miraggi e una miriade di sentieri, che spesso si percorrono da soli.
Any Way Out?
Quali soluzioni? Non sono un timoniere, ma solo un precario navigante. Credo però che non basti più decostruire la realtà che stiamo vivendo. Non si tratta di rinunciare a ridere. Credo però che sia inutile continuare a fornire ironiche negazioni, se non si ricominciano a produrre affermazioni. Forgiare volontà è essenziale per ricomporre una realtà complessa e frammentata, ma anche per ricomporre le nostre identità.
Un primo passo, è forse quello di decolonizzare il nostro immaginario. Evitare di considerarci degli esuberi, ripensare il rapporto esistente tra “lavoro e carriera” e l'immagine che abbiamo di noi stessi, recuperare una cultura del dono e della creatività sganciata da mere logiche mercantili, riconsiderare la nostra “funzione sociale” al di là dalle logiche della "rappresentazione", ripartendo dai nostri reali bisogni, recuperare una reale dimensione relazionale indipendente dal puro edonismo e dalla sola dimensione ludica. Ricominciare a considerare prospettive e progettualità. “Diventare genitori” significa bonificare il deserto di significati che la società post industriale ci ha posto davanti e cominciare a farlo non solo per noi, ma anche per chi ci succederà. Non ci sono facili azioni di massa da intraprendere. Non più. Ci sono atti di resistenza individuale che ogni “uomo di buona volontà”, per proprie passioni e competenze, è chiamato a portare avanti.
Con una premessa però, che può suonare retorica, ma che scavalca ogni contingenza o sovrastruttura. La terra appartiene a chi dalla terra è ferito, sin dalla prima cicatrice. Così è sempre stato. Così continuerà a essere.
Ironia, disillusione e altri demoni
Credo che se abbiamo una colpa (e per noi, intendo tutti quelli che oscillano in quella fascia di età che va pressappoco fra i 20 e i 35 anni), questa colpa sia stata talvolta quella di uniformarci alle immagini con le quali ci hanno rappresentato. Fotogrammi di ironica e sottile inconcludenza.
Molti degli eroi della cultura pop di questi anni sono stati antieroi. Personaggi che vagavano in una realtà che si andava via via spogliando di significato e futuro. L’unica forma di reazione di questi personaggi a questa condizione era quello di opporre una strenua forma di ironia. Qual’era il senso di questa ironia? Credo che sia meglio partire dalle premesse. Quelle fondamentali credo fossero presso a poco queste: so di non avere futuro, che non vivo nel migliore dei mondi possibili, e se c’era un Palazzo d’Inverno l’hanno già assaltato. Hanno provato a sconfiggere i vecchi zar e cosa ne è venuto fuori? Che il Palazzo d’inverno è ancora in piedi, che pure quando qualcuno dei vecchi “padroni del vapore” è stato sconfitto, i rivoluzionari sono corsi a ricoprirsi delle antiche vesti degli “oppressori”. Poi? Poi sono stati eretti altri steccati. Tutti si sono riconosciuti come liberi e indipendenti, cosa se ne è cavato? Maggiore consapevolezza? No, probabilmente abbiamo assistito alla prima generazione senza una prospettiva che travalicasse la propria esistenza. All’incapacità di portare avanti modelli di convivenza, progetti di ingegneria sociale, in alcuni casi, anche famiglie ed affetti. Molti dei nostri padri (non i miei, e sicuramente non tutti) sono stati i primi a far proprio il motto “Il mondo inizia e finisce con me”. Le conseguenze politiche, economiche e ambientali di questo atteggiamento sono sotto gli occhi di tutti. Sia chiaro, non si stanno facendo processi. Le attenuanti sono molte e le conquiste reali. Quella che ci precede è stata la prima generazione che ha dovuto fare i conti con la cultura consumistica, la prima nelle quali la donna è stata considerata qualcosa in più di un semplice oggetto domestico, la prima in cui minoranze oppresse da secoli hanno avuto voce, solo per fare qualche esempio. Ma chi, come me, è arrivato dopo, e si è trovato a confrontarsi con quella generazione sui banchi di scuola, a lavoro e nei circuiti culturali, ha sviluppato quasi sempre un senso di profonda disillusione.
Perché allora l’ironia come cifra stilistica degli “anni zero”? Innanzitutto come forma di autodifesa. Non prendo sul serio quello che mi circonda, perché so che non posso realmente influire sul reale. Ho già assistito alla presa della Bastiglia e del Palazzo d'Inverno, so com’è andata a finire. Ha senso tentare un altro assalto? Probabilmente no. Nella cultura pop, questo senso di impotenza è ben scandito dal dolore che traboccava dal grunge dei primi anni ’90. L’ironia è il travestimento di questo senso di impotenza. Siamo stati la prima generazione che ha sentito, anche indirettamente di dibattiti sulla “fine della storia”, intesa come fine della dialettica fra le forze sociali, capace di innescare mutamenti sociali duraturi. L’ironia è un modo per ignorare e decostruire questo meccanismo, per entrare in relazione con gli altri, senza piangersi eccessivamente addosso. E’ quindi una risorsa preziosa. Ma quali sono gli effetti del suo uso in un’epoca dove, per dirla alla Ennio Flaiano, la “satira supera la realtà”, in cui non c’è quasi più nessun valore cardine da decostruire? David Foster Wallace, uno dei pochi scrittori di questi anni a cui non esiterei di affibbiare l’ abusata etichetta di “genio”, riformula il problema in questa metafora:
“Questi ultimi anni dell'era postmoderna mi sono sembrati un po' come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po' va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l'autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po' di ordine, cazzo...”
La casa che va a fuoco è la nostra realtà quotidiana. I genitori non torneranno. Siamo noi, suggeriva David, a dover diventare “genitori”. Possiamo andare avanti a decostruire e a “sballarci” di non senso, ma è come continuare a mettere a soqquadro casa nostra, incuranti della fine della festa e del post-sbronza. L’ironia, come dicevo sopra, è una risorsa importante, ma va avanti per negazioni, decostruzioni, disincanto progressivo.
Esuberi e deserti
Il secondo aspetto forte di “non senso” è forse però molto più critico e materiale del primo. E’ quello che ciascuno di noi ha sperimentato o sta sperimentando sulla sua pelle. Veniamo da un mondo, che i nostri genitori (quelli che per rimanere a Foster Wallace, non torneranno) ci hanno dipinto in altri termini. Forti dello sviluppo materiale che separava la loro generazione da quella dei loro padri, ci hanno trasmesso il senso di uno sviluppo e di una “promessa di felicità” ascendente e potenzialmente illimitata. Crescendo abbiamo dovuto fare i conti con una realtà molto diversa, e con implicazioni molto più profonde del semplice impoverimento materiale. La realtà di sentirsi prima di tutti degli “esuberi” piuttosto che delle risorse. La maggior parte di noi ha sperimentato questa condizione. Il sentirsi “di troppo” è una condizione relativamente nuova, che taglia completamente i legami con la generazione precedente, connettendoci forse maggiormente con le generazioni che hanno preceduto la generazione degli anni ’60 e ’70, quella dei nostri nonni. Ed è una condizione che svuota completamente “di senso” il nostro rapporto con la società. Se sono un esubero non potrà fregarmene di meno di partecipare alla creazione di un tessuto civile e avrò un rapporto sicuramente più conflittuale con il “significato” di quello che vivo. Mi hanno definito secoli fa come “animale sociale”, allora il senso della mia vita deriverà in larga parte anche da quello che riesco a lasciare agli altri. La nostra società delega gran parte di questo lascito al lavoro. Cosa succede, se di lavoro non ce n’è? O se mi fanno capire quotidianamente che sono assolutamente intercambiabile? Credo che la risposta per chi la vive quotidianamente sia superflua.
Nulla di nuovo, mi si obbietterà. E’ vero. Nulla di nuovo. La nostra non è sicuramente la prima generazione nella storia ad affrontare queste difficoltà. Ma, oltre ad essere la seconda che ha vissuto un’alfabetizzazione di massa e la prima in assoluto ad avere accesso ai mezzi di comunicazione, la mia è forse la prima generazione sprovvista di “codici” per affrontare questo passaggio epocale. I tanti italiani immigrati all’estero venivano da generazioni di stenti e povertà, ma anche da riferimenti e coordinate secolari. La cultura contadina aveva i suoi valori, la sua etica, i suoi rituali, la sua religiosità. La cultura operaia, i suoi schemi di conflitto e contrapposizione, e la forza (o forse la pretesa) di sviluppare un tipo di cultura e una gerarchia di valori autonoma da quella dei “padroni”. Il “sol dell’avvenir” era la realizzazione di quelle premesse.
Nel nostro deserto non esistono cartine, né indicazioni, nè oasi. Esistono una gran quantità di miraggi e una miriade di sentieri, che spesso si percorrono da soli.
Any Way Out?
Quali soluzioni? Non sono un timoniere, ma solo un precario navigante. Credo però che non basti più decostruire la realtà che stiamo vivendo. Non si tratta di rinunciare a ridere. Credo però che sia inutile continuare a fornire ironiche negazioni, se non si ricominciano a produrre affermazioni. Forgiare volontà è essenziale per ricomporre una realtà complessa e frammentata, ma anche per ricomporre le nostre identità.
Un primo passo, è forse quello di decolonizzare il nostro immaginario. Evitare di considerarci degli esuberi, ripensare il rapporto esistente tra “lavoro e carriera” e l'immagine che abbiamo di noi stessi, recuperare una cultura del dono e della creatività sganciata da mere logiche mercantili, riconsiderare la nostra “funzione sociale” al di là dalle logiche della "rappresentazione", ripartendo dai nostri reali bisogni, recuperare una reale dimensione relazionale indipendente dal puro edonismo e dalla sola dimensione ludica. Ricominciare a considerare prospettive e progettualità. “Diventare genitori” significa bonificare il deserto di significati che la società post industriale ci ha posto davanti e cominciare a farlo non solo per noi, ma anche per chi ci succederà. Non ci sono facili azioni di massa da intraprendere. Non più. Ci sono atti di resistenza individuale che ogni “uomo di buona volontà”, per proprie passioni e competenze, è chiamato a portare avanti.
Con una premessa però, che può suonare retorica, ma che scavalca ogni contingenza o sovrastruttura. La terra appartiene a chi dalla terra è ferito, sin dalla prima cicatrice. Così è sempre stato. Così continuerà a essere.
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lunedì 30 agosto 2010
Le canzoni di ieri (istupiditi appunti di viaggio, insonnia e nostalgia)
Quando parti ci sei solo tu, aria assente e occhi insonni, a sbirciare gli altri in un aeroporto affollato. Tra troppe sigarette e voci uguali si insinuano parole scorticate, dissonanze che condiranno a lungo i tuoi giorni.
Arrivi e c’è un gran vento. Un vento freddo che sembra sradicare i tuoi pensieri e disperderli su una pianura sconosciuta.
La città che ti accoglie è un labirinto di simmetria che non sai percorrere.Continui a smarrirti su strade troppo uguali prima di rinunciare alla necessità di un ordine. Ti sforzi di ricordare i nomi delle vie, non sai impararli.
Ogni viso, ogni voce, è una mosca annegata nello zucchero, la prima riga di un racconto abbandonato su un quaderno a quadri, un seme sepolto in terra nell’inverno più gelido che ricordi. Se chiudessi gli occhi rimarrebbero solo i tram della notte e il tuo inchiostro, nascosto al di là del vetro. Se chiudessi veramente gli occhi, percepiresti solo le chiavi premere contro la tua gamba destra e la porta di casa socchiusa, come un piccolo cerotto steso su una ferita assai più larga dei tuoi passi.
Hai tasche piene di tabacco, pensieri appiccicosi di wodka, la bocca impastata di discorsi che non comprenderai più. Passi le notti bevendo; sfiori i fianchi di donne che sanno sorriderti e bevi ancora.
Mattino di dicembre, neve ammucchiata agli angoli delle vie, sciarpe dimenticate su divani vuoti, la gente muore tra giornali e caffè: l’odore di pane sfornato ti conduce a casa. Il tempo è solo un illusione che scava le guance dei netturbini, il letto l’unico ad indovinare il tuo contorno.
La ragazza che ti scippa via ha occhi così fragili da divorare distanze. Tu labbra troppo sporche di vocali, facili erezioni, dita inesperte, una calligrafia che non sai imparare.
Scotti la tua lingua col del tè bollente, rovesci birra e zucchero sul tavolo, inciampi, sorridi e le sussurri “Lì venne Sally con un tamburello”.
La ragazza che ti scippa via ha mani che tremano. Le prendi nelle tue in un caffè affollato e non sai se lì fuori è notte o giorno. Le stringi, le fermi guardandola negli occhi e qualcosa si arresta per un istante anche in te. Quando lei appoggia la sua testa sulla tua spalla, attorno hai una piazza dai palazzi color primavera, ed è già ora di andar via.
Corri sempre con lo stomaco in subbuglio, con la fame che morde ogni tua vena. I gabbiani volano sopra la tua testa, atterrano su tetti di case sempre uguali. Ti scrutano pigri e riprendono il volo sopra i tuoi passi incerti
Quando ti fermi hai davanti un parco sciacquato da un sole inusuale. Senza accorgerti rimani a guardare un vecchio che cammina piano. Nelle mani ha fiori celesti come gli occhi. La ragazza lo chiama "Light eyes". Ti vengono in mente quelli di tuo nonno in un lungomare con tutti i sintomi dell’estate, le tue scarpe slacciate nell’ombra, le sue ciabatte che strusciano sull’asfalto. Ti chiedi perché invecchiando gli occhi diventino più limpidi. Ti chiedi se saprai mai leggere l’alfabeto di quei passi.
Le tue gambe si accorciano, poi ricominciano a divorare la strada.
Quando esci dalla città ti sembra di aver oltrepassato gli argini che ti legano al presente. La storia è un nodo che ti si pianta in gola e attende le tue risposte e quelle di chi ti è accanto. Non ne trovi alcuna, ma le domande ti resteranno appuntate per sempre nel sangue. Rimani a fissare foglie cadere su tombe dimenticate e macchiare il cielo, solo quando le senti crepitare sotto le scarpe ti accorgi di esser vivo.
Le città inquiete non ti attendono. Non lo faranno mai. Tu le sorprendi in piena notte, le tieni in piedi con risate sguaiate e discorsi irrequieti che straripano attorno: quando alzi gli occhi è sempre giorno. E c’è che parli sempre troppo, ma è solo la pressione del sangue ad avvicinarti agli altri.
Dormi su treni cigolanti e letti sfatti. Dormi su tappeti e vecchi divani, ma rifletti chiaramente tutti i tuoi sogni e tutti i tuoi incubi sulla superficie lucente del lavandino.
Se ti sporgi senti l’alito dolce e sensuale della città puttana che ti respira contro. Ami e odi la sua lingua incomprensibile, i suoi uomini dalle spalle larghe, le sue donne dagli occhi d’angelo, l’odore d’alcool e vomito nel livido dell’alba, il tuo cappotto inzuppato di neve negli autobus affollati.
La scopri silenziosa un mattino e ti fai cullare dai suoi muri screpolati, senza occhi da cercare stavolta, senza più sidro da sputar via. Rimandi più volte la partenza e hai sempre meno soldi in tasca.
Poi saluti la ragazza davanti a un sandwich freddo. Segui con lo sguardo le sue gambe e i suoi capelli tiepidi nel primo sole di marzo. La accompagni sulla solita strada. Fiori bianchi sbocciano sugli alberi attorno alla stazione, ed è l’ultima cosa che intuisci: quando appoggi le tue labbra per l’ultimo volta sulle sue il tuo corpo svanisce. E che ti sono sempre stati sul cazzo i film sentimentali di seconda visione. E’ tutto quello che riesci a balbettare. Il treno si allontana e senti che non scorderai mai la tua mano sul suo sesso. Avrai tempo per cercare un senso. Non ne troverai alcuno.
Quando riparti sei solo di nuovo, come il giorno in cui sei arrivato. Hai uno zaino più leggero e un trolley sporco che non scivola sull’asfalto. Ora conosci ogni strada e cerchi di imprimerla nei tuoi occhi per ripercorrerla di nascosto, quando gli altri non potranno più vedere cosa si nasconde al di là. Arrivi in stazione all’ultimo minuto. Molti di quei visi che hai rincorso per mesi sono lì ad aspettarti. Ciascuno ti augura a suo modo “buon viaggio” e “buona fortuna”, perché quel treno non ti riporterà più a casa.
Quando riparti hai il solletico sul petto, come quando da bambino viaggiavi a lungo a fianco al mare. Il labirinto che hai amato e combattuto per mesi svanisce e si dissolve verso un punto che non riesci a intuire.
Al ritorno le tue parole sono confuse, il sole ti nasconde la fine della via. Tra la folla noti un vecchio vagabondo che cammina alla metà della velocità degli altri passanti. In bocca ha una cicca ormai spenta; alle sue spalle la strada è più nitida.
Il caffè che ordini è sicuramente meno acquoso dei precedenti. Non hai nulla davanti, solo i tuoi occhi che ti spiano da uno specchio opaco. Ti domandi dove può andare un vecchio con i fiori celesti come gli occhi in una domenica d’ottobre di Varsavia. Pensi alla distanza che ti separa dal vagabondo lì fuori. Quando esci,lui non c’è più.
Un punto fra rette che si intersecano, una pietrina fosforescente in un mosaico di cui non fai parte, è il tuo autoritratto. Nello zaino hai un libro con caratteri che smetterai di voler decifrare. Sulle mani dei tagli, invisibili e sottili, come le canzoni di ieri.
Allora ti chiedi quali punti i tuoi piedi hanno dovuto unire per condurti fino a lì, davanti a quel domino senza nome, con piedi formicolanti e nessun’altra vita con la quale poterti fidanzare, se non la tua.
Allora ti chiedi quali coordinate ti hanno portato davanti a un semaforo rotto, con le scarpe che cercano la strada e i capelli che cadono come un velo, a nascondere gli occhi più limpidi che hai mai avuto.
Arrivi e c’è un gran vento. Un vento freddo che sembra sradicare i tuoi pensieri e disperderli su una pianura sconosciuta.
La città che ti accoglie è un labirinto di simmetria che non sai percorrere.Continui a smarrirti su strade troppo uguali prima di rinunciare alla necessità di un ordine. Ti sforzi di ricordare i nomi delle vie, non sai impararli.
Ogni viso, ogni voce, è una mosca annegata nello zucchero, la prima riga di un racconto abbandonato su un quaderno a quadri, un seme sepolto in terra nell’inverno più gelido che ricordi. Se chiudessi gli occhi rimarrebbero solo i tram della notte e il tuo inchiostro, nascosto al di là del vetro. Se chiudessi veramente gli occhi, percepiresti solo le chiavi premere contro la tua gamba destra e la porta di casa socchiusa, come un piccolo cerotto steso su una ferita assai più larga dei tuoi passi.
Hai tasche piene di tabacco, pensieri appiccicosi di wodka, la bocca impastata di discorsi che non comprenderai più. Passi le notti bevendo; sfiori i fianchi di donne che sanno sorriderti e bevi ancora.
Mattino di dicembre, neve ammucchiata agli angoli delle vie, sciarpe dimenticate su divani vuoti, la gente muore tra giornali e caffè: l’odore di pane sfornato ti conduce a casa. Il tempo è solo un illusione che scava le guance dei netturbini, il letto l’unico ad indovinare il tuo contorno.
La ragazza che ti scippa via ha occhi così fragili da divorare distanze. Tu labbra troppo sporche di vocali, facili erezioni, dita inesperte, una calligrafia che non sai imparare.
Scotti la tua lingua col del tè bollente, rovesci birra e zucchero sul tavolo, inciampi, sorridi e le sussurri “Lì venne Sally con un tamburello”.
La ragazza che ti scippa via ha mani che tremano. Le prendi nelle tue in un caffè affollato e non sai se lì fuori è notte o giorno. Le stringi, le fermi guardandola negli occhi e qualcosa si arresta per un istante anche in te. Quando lei appoggia la sua testa sulla tua spalla, attorno hai una piazza dai palazzi color primavera, ed è già ora di andar via.
Corri sempre con lo stomaco in subbuglio, con la fame che morde ogni tua vena. I gabbiani volano sopra la tua testa, atterrano su tetti di case sempre uguali. Ti scrutano pigri e riprendono il volo sopra i tuoi passi incerti
Quando ti fermi hai davanti un parco sciacquato da un sole inusuale. Senza accorgerti rimani a guardare un vecchio che cammina piano. Nelle mani ha fiori celesti come gli occhi. La ragazza lo chiama "Light eyes". Ti vengono in mente quelli di tuo nonno in un lungomare con tutti i sintomi dell’estate, le tue scarpe slacciate nell’ombra, le sue ciabatte che strusciano sull’asfalto. Ti chiedi perché invecchiando gli occhi diventino più limpidi. Ti chiedi se saprai mai leggere l’alfabeto di quei passi.
Le tue gambe si accorciano, poi ricominciano a divorare la strada.
Quando esci dalla città ti sembra di aver oltrepassato gli argini che ti legano al presente. La storia è un nodo che ti si pianta in gola e attende le tue risposte e quelle di chi ti è accanto. Non ne trovi alcuna, ma le domande ti resteranno appuntate per sempre nel sangue. Rimani a fissare foglie cadere su tombe dimenticate e macchiare il cielo, solo quando le senti crepitare sotto le scarpe ti accorgi di esser vivo.
Le città inquiete non ti attendono. Non lo faranno mai. Tu le sorprendi in piena notte, le tieni in piedi con risate sguaiate e discorsi irrequieti che straripano attorno: quando alzi gli occhi è sempre giorno. E c’è che parli sempre troppo, ma è solo la pressione del sangue ad avvicinarti agli altri.
Dormi su treni cigolanti e letti sfatti. Dormi su tappeti e vecchi divani, ma rifletti chiaramente tutti i tuoi sogni e tutti i tuoi incubi sulla superficie lucente del lavandino.
Se ti sporgi senti l’alito dolce e sensuale della città puttana che ti respira contro. Ami e odi la sua lingua incomprensibile, i suoi uomini dalle spalle larghe, le sue donne dagli occhi d’angelo, l’odore d’alcool e vomito nel livido dell’alba, il tuo cappotto inzuppato di neve negli autobus affollati.
La scopri silenziosa un mattino e ti fai cullare dai suoi muri screpolati, senza occhi da cercare stavolta, senza più sidro da sputar via. Rimandi più volte la partenza e hai sempre meno soldi in tasca.
Poi saluti la ragazza davanti a un sandwich freddo. Segui con lo sguardo le sue gambe e i suoi capelli tiepidi nel primo sole di marzo. La accompagni sulla solita strada. Fiori bianchi sbocciano sugli alberi attorno alla stazione, ed è l’ultima cosa che intuisci: quando appoggi le tue labbra per l’ultimo volta sulle sue il tuo corpo svanisce. E che ti sono sempre stati sul cazzo i film sentimentali di seconda visione. E’ tutto quello che riesci a balbettare. Il treno si allontana e senti che non scorderai mai la tua mano sul suo sesso. Avrai tempo per cercare un senso. Non ne troverai alcuno.
Quando riparti sei solo di nuovo, come il giorno in cui sei arrivato. Hai uno zaino più leggero e un trolley sporco che non scivola sull’asfalto. Ora conosci ogni strada e cerchi di imprimerla nei tuoi occhi per ripercorrerla di nascosto, quando gli altri non potranno più vedere cosa si nasconde al di là. Arrivi in stazione all’ultimo minuto. Molti di quei visi che hai rincorso per mesi sono lì ad aspettarti. Ciascuno ti augura a suo modo “buon viaggio” e “buona fortuna”, perché quel treno non ti riporterà più a casa.
Quando riparti hai il solletico sul petto, come quando da bambino viaggiavi a lungo a fianco al mare. Il labirinto che hai amato e combattuto per mesi svanisce e si dissolve verso un punto che non riesci a intuire.
Al ritorno le tue parole sono confuse, il sole ti nasconde la fine della via. Tra la folla noti un vecchio vagabondo che cammina alla metà della velocità degli altri passanti. In bocca ha una cicca ormai spenta; alle sue spalle la strada è più nitida.
Il caffè che ordini è sicuramente meno acquoso dei precedenti. Non hai nulla davanti, solo i tuoi occhi che ti spiano da uno specchio opaco. Ti domandi dove può andare un vecchio con i fiori celesti come gli occhi in una domenica d’ottobre di Varsavia. Pensi alla distanza che ti separa dal vagabondo lì fuori. Quando esci,lui non c’è più.
Un punto fra rette che si intersecano, una pietrina fosforescente in un mosaico di cui non fai parte, è il tuo autoritratto. Nello zaino hai un libro con caratteri che smetterai di voler decifrare. Sulle mani dei tagli, invisibili e sottili, come le canzoni di ieri.
Allora ti chiedi quali punti i tuoi piedi hanno dovuto unire per condurti fino a lì, davanti a quel domino senza nome, con piedi formicolanti e nessun’altra vita con la quale poterti fidanzare, se non la tua.
Allora ti chiedi quali coordinate ti hanno portato davanti a un semaforo rotto, con le scarpe che cercano la strada e i capelli che cadono come un velo, a nascondere gli occhi più limpidi che hai mai avuto.
mercoledì 18 agosto 2010
Wikileaks e gli universi che cadono a pezzi
Hai pochi spicci per chiamare. Sei in una cabina telefonica, quella attorno è la tua città. Piove forte e le gocce si infrangono a pochi centimetri dal tuo sguardo. Davanti hai palazzi uguali. Se aguzzi lo sguardo scoprirai che si stanno screpolano pian piano. Il mondo si è probabilmente già frantumato, la realtà è forse solo una tua illusione. Se questo pensiero ti sfiora, un brivido scende lungo la tua spina dorsale e si infrange ai fianchi. Frughi nervosamente nelle tasche per tastare le ultime monete. Componi il numero. Se quella che senti dall’altra parte è la tua voce, sei probabilmente in un romanzo di Philip Dick.
Si dice che le regole (e quindi anche canoni e generi) esistano solo per le eccezioni. Dopo Dick, parlare di “fantascienza” è sempre stato piuttosto riduttivo. Non mi riferisco del passaggio (scontato) da una visione “positivista” a una visione “critica” della tecnologia. Parlo della rivoluzione assoluta dell’idea di “controllo sociale” presente nelle sue opere. Nei romanzi dello scrittore californiano non c’è più nessuna realtà da controllare, per il semplice fatto che la realtà è già esplosa, ed è semplicemente incomprensibile. Il detonatore che l’ha frantumata è l’informazione.
Il potere si fonda sulla creazione di universi informativi illusori, ai quali non è conveniente reagire. Quelli che lo fanno possono solamente creare altre personali cosmogonie destinate a cadere a pezzi, come ricordato in un bel saggio di Francesca Rispoli. Tutti i personaggi di Dick si muovono in un illusione così forte e così invisibilmente coercitiva da sembrare vera. La cifra stilistica è l’isolamento, quella narrativa l’ambiguità, il dubbio (spesso) l’unica forma di poesia praticabile. Realtà e rappresentazione sono diventate la stessa cosa. La repressione non serve più. Basta rendere la realtà incomprensibile per inibire ogni azione o reazione dei personaggi. Il meccanismo a livello sociale è più o meno questo: “Non so chi colpire, perciò non posso agire” come recita una canzone degli Afterhours. Gran parte del cinema contemporaneo considerato di fantascienza (ivi compresi classici come Matrix) senza le opere di Philip Dick non sarebbero nemmeno concepibili.
Fortunatamente non sono in una cabina periferica periferica con pochi spicci in tasca (anche se ho perso il telefono proprio oggi) e attorno non sta piovendo, perché parlare di Dick allora? Credo che le distopie non arrivino mai (fortunatamente) a realizzarsi concretamente. Non abbiamo (più o meno) mai vissuto in 1984 , ma Orwell, come Huxley e come tutti i grandi maestri del genere hanno indicato le coordinate di una possibile deriva, estrapolando ed estremizzando degli elementi costitutivi della nostra realtà, componenti spesso "avvertiti" come positivi o addirittura fondanti per i parametri culturali in cui siamo immersi. Bersaglio di molte distopie del secolo scorso sono state le utopie positiviste di sviluppo e progresso tecnologico e sociale.
Il mito della società della conoscenza è quello dell’ ”Informazione”. I processi informativi , l’interconnessione globale, la libera possibilità di espressione di tutti gli utenti renderebbero più “trasparente”, più “democratica”, in poche parole più “libera”, la nostra società.
Prendete l’esempio di Wikileaks. Wikileaks (da leak, "fuga di notizie" in inglese) è un'organizzazione internazionale che riceve documenti coperti da segreto e poi li mette in rete sul proprio sito web. Wikileaks riceve in genere documenti di carattere governativo o aziendale, da parte di fonti coperte dall'anonimato. L'organizzazione si occupa di verificare l'autenticità del materiale e poi lo pubblica tramite i propri server dislocati in Belgio e Svezia (due Paesi con leggi che proteggono tale attività), preservando l'anonimato degli informatori e di tutti coloro che sono implicati nella "fuga di notizie". (fonte Wikipedia).
L’organizzazione è divenuta famosa ultimamente per la pubblicazione di importanti documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, che ha rilevato diversi massacri delle truppe americane ai danni di popolazione civile inerme e una verità tanto temuta, quanto ormai quasi ovvia: la "vittoria USA" è fortemente compromessa.
Dalle lodi al forte impulso di democratizzazione del mezzo ai paragoni con la grottesca situazione italiana, le problematiche derivanti dall0utilizzo del nuovo “wiki” sembrano provenire solo da posizioni reazionarie e conservatrici, con argomentazioni francamente ridicole (almeno per chi scrive).
Col nuovo mezzo sarebbe insomma più difficile occultare delle verità fondamentali ai cittadini e all’opinione pubblica, costringendo gli stati, quanto le grandi corporation (tesi interessante sviluppata organicamente per l'universo pubblicitario da Paolo Iabichino in “Invertising”) a fare i conti con i propri elettori o i propri utenti.
In larga parte questo è ancora vero, specialmente nel paese del surrealismo mediatico-dittatoriale per antonomasia.Ma siamo sicuri che il potere si baserà sulla negazione dell’accesso alla conoscenza ancora a lungo? Sulla diffusione gerarchica di qualche dogmatico motto come “La guerra è pace”? Le distopie di Philip Dick tendono a smentire questa rotta. Se fossi un tiranno invisibile di un suo romanzo desiderei censurare una risorsa informativa presente su Wikileaks o altri siti? Non credo.
Penso che proverei a infiltrarmi all’interno di quel sistema piuttosto, a veicolare informazioni alterate o completamente false o a usare ogni mezzo possibile per depistare chi è dall’altra parte del mio terminale. Proverei poi a frantumare il concetto di “verità”, emettendo una sorgente continua di notizie contraddittorie che tendono a smentirsi reciprocamente, fino a suscitare una forte “ambiguità” e un forte senso di relativismo in chi voglio controllare. In Italia penso che abbiamo avuto un discreto assaggio di cosa intendo . Il potere nella “società liquida” non ha bisogno dei vecchi sistemi repressivi e carcerari. Basta inibire i processi di reazione . E queste tecniche hanno una radice più immateriale che materiale. La tecnologia in quanto tale non serve a rendere la società nè più libera, nè più trasparente, ma a costringere a nuove strategie di sopravvivenza e proliferazione tanto i controllori, quanto i "controllati".
Tutto questo non può non disorientare.
E allora? Dove mi trovo? Sicuramente non ti trovi in un romanzo di Philip Dick e come già ribadito non c’è nessuna cabina telefonica davanti ai tuoi occhi. Tra le tue dita c’è uno strumento che può virtualmente raggiungere qualunque parte del globo o gran parte degli individui che fanno parte di questa parte del mondo che ti ostini a chiamare “Occidente”. Il mondo non si è ancora frantumato e ne hai bisogno come di acqua. Il potenziale libertario degli strumenti che hai di fronte è sicuramente rilevante. Ma devi stare attento a non perderti nella pioggia informativa che ti si sta rovesciando addosso. Nessun nerd ti insegnerà a farlo. Decidere cosa bere, evitando di affogare, sarà probabilmente sempre più difficile. Dipenderà da questo, gran parte del nostro futuro anteriore .
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lunedì 26 luglio 2010
Luci (abbaglianti) della città
C’è una nostalgia che non ci appartiene. Viene dai racconti che ci sussurravano per prendere sonno o per spaventarci da bambini, dal libro divorato all’ultimo banco durante l’ora di chimica, dal film che ci ha tenuto compagnia mentre fuori nevicava, da tutte le voci che hanno provato a evocare in noi altre voci e da tante, troppe cose che non appartengono alla giurisdizione del sole. C’è una Milano che non ho conosciuto e che non conoscerò mai, ad esempio. La Milano dei vecchi Navigli degli anni ’50 raffigurata e tradita dei tanti quadri a buon mercato che mio nonno vendeva, una città fatta di battelli carichi di merci, palazzi che svettano nella nebbia, profili di donne che si frammentano nel buio e nel Biancosarti. Non c’è niente di più indistinto e sognante della nostalgia di ciò che non si è vissuto.
I film di Chaplin, mi fanno più o meno questo effetto. La sua grandezza è quella di avermi regalato un fermo-immagine semplice. Un omino che non sa marciare in riga con eserciti trionfanti, non sa stare al suo posto in una catena di montaggio, né abbandonarsi a facili celebrazioni o retorici ideali, senza tradire irrimediabilmente sé stesso. Il prezzo è l’emarginazione, il guadagno è l’autenticità. Un“vagabondo” che non può ignorare la storia e la realtà, ma che riesce a smontarne i miti con la sola forza della propria inadeguatezza. Basta soffermarsi su qualche pantonima di “Tempi moderni” per capire cos’è stato (e cos’è) il fordismo per milioni di operai, è sufficiente qualche fotogramma di “Il grande dittatore”o “Charlot soldato” per capire cos’ha voluto dire la parola “Patria” e il militarismo in Europa nel corso del Novecento.
In “Luci della città” (rivisto in un momento di follia qualche sera fa) è l’artificio stesso della “visione” ad essere smontato. Realizzato nel ’29 come film muto , nonostante da circa tre anni il sonoro fosse una prerogativa irrinunciabile per un regista hollywoodiano, “Citylights” è un’opera che traccia un solco profondo nella storia del cinema. E’ il film dell’innocenza perduta non solo della protagonista, ma di noi spettatori. Degli occhi aperti su un mattino abbagliante e vuoto.
Semplice la trama. Charlot, il vagabondo, si innamora di una fioraia cieca. Salva poi la vita e fa amicizia con un milionario che lo riconosce però solo da ubriaco durante suoi bagordi. Grazie a questa amicizia Charlot accumula i soldi necessari per far operare e riacquistare lqa vista alla povera ragazza. Nel mezzo, le luci di una città vorace e allucinata, che prende corpo ed esplode nelle nottate brave del magnate, si dissolve e si ricompone sotto casa della povera venditrice. E’ l’America ruggente degli anni ’20 riprodotta in un polveroso teatro di posa, un mondo dominato da un capitalismo irrazionale e bulimico, ben impersonificato nella figura del milionario. Un universo che verrà frammentato dal crollo di Wall Street del ’29.
Ma non è il capitalismo ad essere sul banco degli imputati (o non solo). E’ il nostro sguardo. La protagonista, una volta riacquistata la vista non riconosce immediatamente Charlot. Ci riesce solo negli ultimi fotogrammi, prima della fine del film , riuscendo a provare per lui solo un sentimento indistinto di pena.
Senza gli occhi della povera fioraia non potremmo forse concepire gli occhi di Marcello Mastroianni nel finale de “La Dolce vita” ad Ostia, quando la bambina, simbolo di un’innocenza ormai perduta lo chiama e lui non riesce più a sentirla. Senza “Luci della città” sarebbe forse impossibile realizzare quanta mostruosità può addensarsi nei nostri stessi occhi, mostruosità visibile in quel capolavoro che è “Elephant Man” Di Lynch, pellicola che costringe a ribaltare tutte le nostre prospettive: “Il mostro” è quello che vediamo sulla scena o è generato dal nostro sguardo? Quanto lo spettacolo può pervertire la realtà?
L'aprire gli occhi della fioraia coincide con la fine dell'innocenza, con lo sfumare della verginità della visione e del cinema stesso come neutro strumento di ricerca e fascinazione. La città che la protagonista intuiva semplicemente, è una Babilonia dove le immagini si arrampicano e si sovrappongono, dove ogni fotogramma ha una fitta rete di connotazioni che soppianta la denotazione di base. Il vagabondo è per lei un povero mendicante, verso il quale provare pena.
Josè Saramago, in uno dei suoi libri più belli ed ispirati immaginava la cecità che si abbatte su una città imprecisata come un castigo biblico. Una cecità che porta ad ogni sorta di orrori, evidente metafora della crisi etica e morale che la società occidentale tout court, sta attraversando. In “Citylights” Chaplin suggerisce che la vera cecità può essere generata dalla visione stessa. Il troppo vedere rende ciechi. Il troppo sentire, sordi.
E’ la salmodia di un secolo solcato delle immagini, prodotte, riprodotte, manipolate, veicolate e usate come armi da guerra dell’artificio spettacolare, fino a renderle vacui simulacri. La “notte morale” , se di “notte morale” si può parlare, o (più sobriamente) la “crisi” che stiamo attraversando, è satura di visioni.
Si possono chiudere ancora gli occhi? Ci si può "disconnettere" per vedere o intuire? E’ ancora possibile? Il film non dà risposte. La storia nemmeno.
Siamo in tanti, orfani dello sguardo cieco della fiammiferaia che si aggrappa all’ignoto, condannati alla nostalgia di una luce pronta a farsi di nuovo segno, a farsi di nuovo possibilità.
I film di Chaplin, mi fanno più o meno questo effetto. La sua grandezza è quella di avermi regalato un fermo-immagine semplice. Un omino che non sa marciare in riga con eserciti trionfanti, non sa stare al suo posto in una catena di montaggio, né abbandonarsi a facili celebrazioni o retorici ideali, senza tradire irrimediabilmente sé stesso. Il prezzo è l’emarginazione, il guadagno è l’autenticità. Un“vagabondo” che non può ignorare la storia e la realtà, ma che riesce a smontarne i miti con la sola forza della propria inadeguatezza. Basta soffermarsi su qualche pantonima di “Tempi moderni” per capire cos’è stato (e cos’è) il fordismo per milioni di operai, è sufficiente qualche fotogramma di “Il grande dittatore”o “Charlot soldato” per capire cos’ha voluto dire la parola “Patria” e il militarismo in Europa nel corso del Novecento.
In “Luci della città” (rivisto in un momento di follia qualche sera fa) è l’artificio stesso della “visione” ad essere smontato. Realizzato nel ’29 come film muto , nonostante da circa tre anni il sonoro fosse una prerogativa irrinunciabile per un regista hollywoodiano, “Citylights” è un’opera che traccia un solco profondo nella storia del cinema. E’ il film dell’innocenza perduta non solo della protagonista, ma di noi spettatori. Degli occhi aperti su un mattino abbagliante e vuoto.
Semplice la trama. Charlot, il vagabondo, si innamora di una fioraia cieca. Salva poi la vita e fa amicizia con un milionario che lo riconosce però solo da ubriaco durante suoi bagordi. Grazie a questa amicizia Charlot accumula i soldi necessari per far operare e riacquistare lqa vista alla povera ragazza. Nel mezzo, le luci di una città vorace e allucinata, che prende corpo ed esplode nelle nottate brave del magnate, si dissolve e si ricompone sotto casa della povera venditrice. E’ l’America ruggente degli anni ’20 riprodotta in un polveroso teatro di posa, un mondo dominato da un capitalismo irrazionale e bulimico, ben impersonificato nella figura del milionario. Un universo che verrà frammentato dal crollo di Wall Street del ’29.
Ma non è il capitalismo ad essere sul banco degli imputati (o non solo). E’ il nostro sguardo. La protagonista, una volta riacquistata la vista non riconosce immediatamente Charlot. Ci riesce solo negli ultimi fotogrammi, prima della fine del film , riuscendo a provare per lui solo un sentimento indistinto di pena.
Senza gli occhi della povera fioraia non potremmo forse concepire gli occhi di Marcello Mastroianni nel finale de “La Dolce vita” ad Ostia, quando la bambina, simbolo di un’innocenza ormai perduta lo chiama e lui non riesce più a sentirla. Senza “Luci della città” sarebbe forse impossibile realizzare quanta mostruosità può addensarsi nei nostri stessi occhi, mostruosità visibile in quel capolavoro che è “Elephant Man” Di Lynch, pellicola che costringe a ribaltare tutte le nostre prospettive: “Il mostro” è quello che vediamo sulla scena o è generato dal nostro sguardo? Quanto lo spettacolo può pervertire la realtà?
L'aprire gli occhi della fioraia coincide con la fine dell'innocenza, con lo sfumare della verginità della visione e del cinema stesso come neutro strumento di ricerca e fascinazione. La città che la protagonista intuiva semplicemente, è una Babilonia dove le immagini si arrampicano e si sovrappongono, dove ogni fotogramma ha una fitta rete di connotazioni che soppianta la denotazione di base. Il vagabondo è per lei un povero mendicante, verso il quale provare pena.
Josè Saramago, in uno dei suoi libri più belli ed ispirati immaginava la cecità che si abbatte su una città imprecisata come un castigo biblico. Una cecità che porta ad ogni sorta di orrori, evidente metafora della crisi etica e morale che la società occidentale tout court, sta attraversando. In “Citylights” Chaplin suggerisce che la vera cecità può essere generata dalla visione stessa. Il troppo vedere rende ciechi. Il troppo sentire, sordi.
E’ la salmodia di un secolo solcato delle immagini, prodotte, riprodotte, manipolate, veicolate e usate come armi da guerra dell’artificio spettacolare, fino a renderle vacui simulacri. La “notte morale” , se di “notte morale” si può parlare, o (più sobriamente) la “crisi” che stiamo attraversando, è satura di visioni.
Si possono chiudere ancora gli occhi? Ci si può "disconnettere" per vedere o intuire? E’ ancora possibile? Il film non dà risposte. La storia nemmeno.
Siamo in tanti, orfani dello sguardo cieco della fiammiferaia che si aggrappa all’ignoto, condannati alla nostalgia di una luce pronta a farsi di nuovo segno, a farsi di nuovo possibilità.
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domenica 16 maggio 2010
L’isola dei cassintegrati: prove tecniche di contro narrazioni
La storia nasce su un’isola lontana quanto basta dai pensieri. Un’isola difficilmente frequentata da re, fate, tronisti, soubrette e altre forme di e magiche e catarifrangenti creature. La storia nasce dentro un carcere. Lì un gruppo di invisibili decide di appropriarsi dei codici del palcoscenico e spostare i riflettori della fiaba. Nessuna televisione. Pochi, pochissimi giornali. Eppure, grazie alla rete la narrazione va avanti. Solo su facebook il gruppo dell’ “Isola dei cassintegrati” ha circa 100mila sostenitori. Dietro quel gruppo ci sono i lavoratori che si sono auto-reclusi nel carcere dell’Asinara. Sono i cassintegrati della Vinyls di Porto Torres, che da 82 giorni portano avanti il loro contro-reality sul dramma della disoccupazione. Perché in una Repubblica che si dice ancora basata sul lavoro, la perdita dell’occupazione è anche isolamento dalla società civile, dal proprio futuro e forse dalla possibilità stessa di dare un senso alla propria vita. Perché in tempi di crisi il TG1 dedica solo il 7% ai problemi del lavoro, contro il 21% di BBC One o il 41% di France 2.
Nelle fiabe di solito sono i buoni a vincere e i cattivi ad avere la peggio. All’Asinara non si hanno queste certezze. Ma se qualcuno vincerà, sarà il termine “condivisione” a soppiantare per una volta quello di “successo”. Come ogni fiaba però, anche quella dei cassintegrati di Porto Torres è fatta per insegnarci qualcosa.
La prima lezione è che forse una partita è persa. I lavoratori hanno inizialmente definito come “ectoplasmi” i sindacati. Ho 30 anni per me i sindacati non sono mai esistiti e non credo che la mia opinione differisca da quella di molti altri coetanei. Inefficienze, privilegi e reticenze a parte, la gestione dei conflitti si è fatta più difficile per molte ragioni. Da un punto di vista prettamente di comunicazione, i conflitti faticano a entrare nell’agenda mediatica della contemporaneità. Dimenticando le censure evidenti imposte dalla situazione di italico surrealismo, non c’è una macronarrazione o una paura di fondo che sostiene le rivendicazioni dei lavoratori e le rende appetibili per un pubblico di massa. Le macronarrazioni e le paure erano costituite dalle vecchie ideologie e dalle vecchie prospettive di “progresso” e stato sociale. I lavoratori di Porto Torres hanno definito chiaramente questo stato di isolamento: "Perché c'è l'Italia dei famosi e quella di chi sta perdendo il posto di lavoro, noi rappresentiamo quest'ultima e ci fa un po' rabbia che per avere visibilità ci siamo dovuti inventare una parodia della televisione e affidare la nostra iniziativa a Facebook” dichiarava uno di loro all’inizio del contro-reality.
La seconda lezione è quello dell’ingresso definitivo del marketing virale e di guerriglia in ambiti anche assai distanti da quello che è il mondo pubblicitario. Per Guerriglia marketing si intende un’azione di marketing non convenzionale volto a promuovere un prodotto, un’idea , un concetto. Nasce negli anni ’90 quando ci si accorge che i consumatori sono ormai assuefatti alle forme di comunicazione monodirezionale. Si sceglie allora di intercettarli in contesti assai diversi, dove non si aspettano di trovare il messaggio pubblicitario sviluppandone feedback e interattività. Oggetto di guerriglia marketing può allora diventare ogni tipo di oggetto, dalle false banconote per strada a un adesivo luminoso sulla superficie di un wc pubblico. Quel che conta è generare curiosità e visibilità ; visibilità che si può tradurre in un vero e proprio tam tam fra i consumatori che (anche tramite i nuovi media) può aumentare esponenzialmente tanto da essere definito “virale”. Il tentativo è quello di sovvertire o esaltare i codici dello spettacolo, ovvero di ciò che Gui Debord definiva in questi termini: “Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini “. Gli operai di Porto Torres stanno cercando di entrare in questo rapporto o di sabotarlo a loro vantaggio. Credo che non sarà il primo esperimento di questo tipo. Credo che chi di dovere dovrebbe mettere due piedi nel 2010 e staccarsi dagli anni 60’-70’di tanto in tanto.
Non so come finirà. Penso però che in ogni fiaba gli eroi, dopo le peripezie, devono per forza guardare il mondo con occhi diversi. Spero allora che gli operai di Porto Torres al termine del loro forzato isolamento l’osservino per davvero quel mare che circonda l’Asinara. Il mare non è solo scissione. Sognare cosa c’è al di là è stato spesso l’inizio di nuove storie.
Nelle fiabe di solito sono i buoni a vincere e i cattivi ad avere la peggio. All’Asinara non si hanno queste certezze. Ma se qualcuno vincerà, sarà il termine “condivisione” a soppiantare per una volta quello di “successo”. Come ogni fiaba però, anche quella dei cassintegrati di Porto Torres è fatta per insegnarci qualcosa.
La prima lezione è che forse una partita è persa. I lavoratori hanno inizialmente definito come “ectoplasmi” i sindacati. Ho 30 anni per me i sindacati non sono mai esistiti e non credo che la mia opinione differisca da quella di molti altri coetanei. Inefficienze, privilegi e reticenze a parte, la gestione dei conflitti si è fatta più difficile per molte ragioni. Da un punto di vista prettamente di comunicazione, i conflitti faticano a entrare nell’agenda mediatica della contemporaneità. Dimenticando le censure evidenti imposte dalla situazione di italico surrealismo, non c’è una macronarrazione o una paura di fondo che sostiene le rivendicazioni dei lavoratori e le rende appetibili per un pubblico di massa. Le macronarrazioni e le paure erano costituite dalle vecchie ideologie e dalle vecchie prospettive di “progresso” e stato sociale. I lavoratori di Porto Torres hanno definito chiaramente questo stato di isolamento: "Perché c'è l'Italia dei famosi e quella di chi sta perdendo il posto di lavoro, noi rappresentiamo quest'ultima e ci fa un po' rabbia che per avere visibilità ci siamo dovuti inventare una parodia della televisione e affidare la nostra iniziativa a Facebook” dichiarava uno di loro all’inizio del contro-reality.
La seconda lezione è quello dell’ingresso definitivo del marketing virale e di guerriglia in ambiti anche assai distanti da quello che è il mondo pubblicitario. Per Guerriglia marketing si intende un’azione di marketing non convenzionale volto a promuovere un prodotto, un’idea , un concetto. Nasce negli anni ’90 quando ci si accorge che i consumatori sono ormai assuefatti alle forme di comunicazione monodirezionale. Si sceglie allora di intercettarli in contesti assai diversi, dove non si aspettano di trovare il messaggio pubblicitario sviluppandone feedback e interattività. Oggetto di guerriglia marketing può allora diventare ogni tipo di oggetto, dalle false banconote per strada a un adesivo luminoso sulla superficie di un wc pubblico. Quel che conta è generare curiosità e visibilità ; visibilità che si può tradurre in un vero e proprio tam tam fra i consumatori che (anche tramite i nuovi media) può aumentare esponenzialmente tanto da essere definito “virale”. Il tentativo è quello di sovvertire o esaltare i codici dello spettacolo, ovvero di ciò che Gui Debord definiva in questi termini: “Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini “. Gli operai di Porto Torres stanno cercando di entrare in questo rapporto o di sabotarlo a loro vantaggio. Credo che non sarà il primo esperimento di questo tipo. Credo che chi di dovere dovrebbe mettere due piedi nel 2010 e staccarsi dagli anni 60’-70’di tanto in tanto.
Non so come finirà. Penso però che in ogni fiaba gli eroi, dopo le peripezie, devono per forza guardare il mondo con occhi diversi. Spero allora che gli operai di Porto Torres al termine del loro forzato isolamento l’osservino per davvero quel mare che circonda l’Asinara. Il mare non è solo scissione. Sognare cosa c’è al di là è stato spesso l’inizio di nuove storie.
sabato 8 maggio 2010
Puntualizzazioni
Lo so. E' un pò che avevo in mente l'idea di un blog. Sono stati mesi segnati da confusione, impegni, sfide con improbabili mulini a vento e (tirando le somme) pochissimo tempo a disposizione.Un pò di timore c'era e c'è in ogni caso. La blogosfera è stracolma di blog intrisi di patetismi e autoreferenzialità. Spazi troppo spesso orientati alla ricerca di indulgenze e commiserazioni. Che la rete, social network in primis, si stia trasformando progressivamente in questo, è un dato di fatto. Affermare che questo mio piccolo spazio ne sarà completamente esente, sarebbe d'altra parte, solo pretenzioso. Un blog è prima di tutto un diario di bordo. Il tentativo sarà semmai quello di sovrappore alla narrazione dei miei giorni, una sorta di sovranarrazione collettiva. Le città sottili vuole essere un blog di periferie mediatiche e culturali. Una piccola finestra sul lavoro di chi ogni giorno lavora per creare nuovi terreni di condivisione, innovazione, bellezza e lotta nell'assordante rumore di fondo dominante. Un piccolo fiammifero per far luce sulle troppe pozzanghere d'ombra che ci circondano.Uno spazio dove raccogliere riflessioni sparse sulle mie passioni e possibilmente condividerle. Ma siccome il patetismo sembra incarnare il vero e proprio "sentimento del tempo" nella rete, mi scuso sin da ora, se il blog dovesse evolvere in un archivio disordinato di sfighe. Ultimissima, non riserverò gran cura alla veste grafica al momento. Dico ciò perchè il blog, nell'idea di chi scrive, sarà presto realizzato in wordpress. Sto lavorando al tema e alla grafica. Io dico che in un mese sarà pronto. Ma è Maggio, quindi non prendetemi poi troppo sul serio.
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